venerdì 11 maggio 2012

Poche idee ma confuse

Vivo alla giornata.
Non alla maniera maledetta ed intrigante della beat generation, ma a quella sciatta e disorganizzata di chi fatica ad immaginare il menu del prossimo pasto. Ci sarebbe anche un alone eccitante in tutto questo, se poi non finissi ogni volta, inevitabilmente, ad aprire una scatoletta di ceci che, per pigrizia, non scaldo nemmeno al microonde e che generalmente costituisce il famoso fondo del barile, da me settimanalmente grattato. Infatti, pur intravvedendo la minaccia della fame nera nel vuoto pneumatico di credenza e frigorifero, ogni volta lascio che una deprecabile pigrizia si erga a muro invalicabile tra l'attuale miseria ed una sana gita al supermercato, aperto peraltro ventiquattr'ore su ventiquattro.
La mia totale incapacità di prevedere il futuro è imputabile in parte alle mie penosissime doti programmatorie, a causa delle quali, in anni ed anni di vita accademica, ho coltivato e nutrito la perniciosa abitudine della secchiata dell'ultimo minuto, ed in parte ad un'esagerata indecisione, che mi spinge a soppesare le scelte in maniera ossessivo-compulsiva e ad aggiungere improbabili opzioni a liste già sufficientemente pingui.
Il mio vivere alla giornata si riassume, quindi, in una serie di fobie e complessi schizoidi, aggravati da miopia rispetto al futuro.
Quando non si sa dove andare o che si farà a distanza di un paio di ore, diventa ovviamente arduo rispondere a domande relative alla futura ubicazione geografica.
Brancolo nel buio e, come direbbe mio padre, ho poche idee ma confuse.
Un po' per pigrizia, un bel po' per terrore di abbandonare amici e gatti, un po' per amore degli spazi infiniti, un angolo della mia mente, del quale a dire il vero mi vergogno non poco, sta cercando strategie picaresche per rimanere in terra americana. Ma quell'angolo lì viene presto zittito dalla mia anima anarco-vegana e dalla nostalgia di casa, dove genitori, fratelli e amici (pelosi o meno) mi stanno (forse) aspettando, in una fantasia bacata nella quale le majorette e la banda del paese mi attendono al mio ritorno, che sarà benedetto dal classico sole italiano.
A questo punto della mia allucinazione, però, le fanfare vengono annientate col lanciafiamme dalle demoralizzanti notizie relative alla crisi economica, scenario che contempla amici con sei o sette lauree costretti a sgranocchiare il magro ossicino di una supplenza di qualche settimana o a mendicare un posto sottopagato con trucidi contratti a progetto farlocchi, mentre nelle mie orecchie risuona la voce della Babi che, a mo' di prefica, ripete “La' non tornare, che qui ce sta la miseria e la gente s'ammazza per la disperazione”.
Vedendomi davanti le tre Arpie della fame nera, mi aggrappo con disperazione all'immagine, ormai idealizzata in modo imbarazzante, del vicino Canada, che prende le forme di un ricchissimo eden popolato da angeliche figure alte e bionde, talmente gentili da correre il rischio di sembrare un po' idiote.
Il Canada è un visto facile, seppur breve, ma è anche il dover trovare una casa, un lavoro, nuovi amici e nuove routine. È la vicina Toronto, dove abbondano i locali vegan e i frikkettoni miei simili, ma è anche la lontanissima Vancouver che, con Babi, vagheggiamo di raggiungere a bordo della mia Sweet Princess, nella speranza che non ci abbandoni dopo le prime cento miglia di coast to coast.
Recentemente, due amiche mi hanno fatto la stessa proposta: convivere con loro e la loro prole. Tutto ciò mi porta a pensare che dovrei rivedere l'immagine che ho di me stessa e ripensarmi nei panni del “male bread-winner” o, meglio ancora, del marito un po' ubriacone che reclama il proprio sacrosanto diritto ad una cena cruelty free ed alle camicie stirate.
In fin dei conti, in tutto questo trambusto cerebrale, in tutta questa confusione geografica, lo so benissimo dove sta casa mia: anche se loro non lo sanno, anche se sono lontani e forse andranno ancora più lontano, i miei fratelli e Kamalita sono “my home”. E, certo, anche mamma e papà e la storia infinita del loro giardino stracolmo di piante e della casa che cresce come un fungo.