domenica 27 febbraio 2011

Una poltrona un po' bizzarra

Ho ancora il mio scalpo e, per ora, nessuno ha ancora esercitato le proprie doti urinarie a mio discapito. Ciò significa che sono una professionista più che qualificata per operare con utenti disabili.
Presto servizio, se così si può dire, in una casetta di legno dispersa nel bosco, nel paese più hippie della storia: Woodstock.
Per raggiungere il posto di lavoro devo affrontare una serie di prove degne di un corso di sopravvivenza: indirizzare la coinquilina nepalese nel giusto senso di marcia, evitare di finire incagliati tra i cumuli di neve o di venire travolti dai mega pick-up spazzaneve, schivare cervi, orsi, scoiattoli e puzzole aspiranti suicidi, non dare credito al gps quando dice di girare in strade che non esistono.
Una volta raggiunto il posto di lavoro, le sfide sono altre. A volte penso di non farcela, mentre altre mi pare di aver quasi la situazione in pugno. Innanzitutto, devo fornire molteplici e sempre diverse spiegazioni al fatto che non ho, non voglio e mai vorrò dei figli: tutte le colleghe ne hanno uno o più, in genere portatori di nomi agghiaccianti tratti da popolari tv shows e tutte non perdono occasione per fare facce stupite di fronte al volontario spreco di utero e ovaie che il Signore mi ha dato in dono. Oggi, ad esempio, da una mia incosciente domanda sull'uso dei pannolini, si è scatenato un feroce e crudele bombardamento inquisitorio sulla mia personale avversione alla maternità. E pensare che volevo solo sapere se esistesse un “davanti” ed un “di dietro” nei pannoloni!
Altre sfide sono relative al lavoro in sé e, in particolare, alla parte fisica di esso. Occuparsi di persone quasi totalmente incapaci di muoversi implica l'avere a che fare con tutto ciò che il corpo umano produce (a volte anche troppo copiosamente) e il doversi confrontare con inclementi leggi della fisica, prima fra tutte la gravità.
A volte mi sento come il ragazzo dal kimono d'oro, cioè un neofito, nonché una cippa totale, nelle antiche arti infermieristiche e Kamala è il maestro Kimura, perché a lei è stato affidato dagli dei l'ingrato compito di insegnare l'antica arte del sollevare persone che pesano circa il doppio.
Un'altra dura prova consiste nel fronteggiare l'ermetismo statunitense. Nessuno (tranne pochi esseri illuminati) ti dice cosa devi fare, come devi farlo e quando. Lo devi dedurre tu con l'aruspicina, con l'interpretazione dei sogni, oppure con quella del volo del picchio dell'east coast. Io, personalmente, ho deciso di affidarmi alla lettura delle striature sul tofu: è di gran lunga il metodo più affidabile!
La sfida più ardua in assoluto è però trovare adeguati canali di comunicazione con gli utenti.
Parlare senza parole è qualcosa di duro come la pietra e a volte troppo difficile da accettare. Ma l'afasia non deve scoraggiare e il ritardo mentale è un muro troppo esile per non permetterci di vedere, in tutta la sua forza e bellezza, l'essere umano che si nasconde là dietro.
Piano piano imparo a leggere i corpi e i suoni e lentamente facciamo progressi.
A. è l'unica in grado di camminare ed è anche una fantastica ballerina. Vuole sempre incrociare il suo mignolo al mio, in segno di affetto e credo mi voglio bene, nonostante l'altro giorno le abbia messo lo smalto peggio di quanto potrebbe fare una scimmietta ubriaca.
A.C. è un uomo bellissimo, ma non cammina, non parla e non vede. Anche se le mie colleghe cono convinte del contrario e, giorno dopo giorno, me ne sto convincendo anch'io, tanta è l'intensità con la quale ti guarda a volte. Ama la musica e, in particolare, adora il suo tamburello e quando lo suoni ti senti quasi come il pifferaio magico, tale è l'effetto che ha su di lui. A. adora afferrare ogni cosa che gli capiti a tiro, compresi i capelli della sottoscritta. L'increscioso accaduto risale a ieri quando, distratta dal difficile compito di togliergli le scarpe, mi sono dimenticata degli scherzetti che gioca e ho salvato lo scalpo solo grazie al pronto intervento di Kamala e Norma.
H. sorride spesso, soprattutto quando entri nella stanza dove si trova, ma è anche un duro: sa esattamente cosa vuole e non c'è verso di fargli mangiare del cibo che non sia di suo gradimento. H è anche il più leggero di tutti, perciò ho qualche speranza di riuscire a sollevarlo, someday.
D. ha gli occhi più grandi della terra e quando ride ti si scioglie il cuore. Non si muove e non vede nulla, ma batte le mani a ritmo se gli canto una stupida canzoncina da me appositamente inventata e principalmente basata sulla ritmica ripetizione del suo nome. Oggi l'ho fatto sghignazzare un po' facendo finta di non trovarlo e chiedendo a tutti gli altri utenti dove fosse D. Quando alla fine ho simulato stupore per il suo ritrovamento, D. era felice come una pasqua.
L. è una donnona che ha circa l'età di mia madre, ma in realtà è una bambina gentilissima che ti ripete di continuo “I love you” e “You're a pretty nice girl” e guai a chi non le risponde.
L. è l'unica ad avere qualcuno che, ogni tanto, telefoni per sapere come sta. Per tutti gli altri il telefono non suona mai e il giorno delle visite è cosa sconosciuta. Sono esseri difettosi che nessuno reclama. Sono fratelli, sorelle, figli, cugini o zii che non compaiono in nessun ritratto di famiglia.
A volte mi chiedo se, ogni tanto, anche solo una volta all'anno, qualche parente pensi a loro.
A questi smemorati dico “hey gente, non sapete che vi perdete!”. Passare del tempo qui a Woodstock a cantare canzoncine stonate e suonare senza posa tamburelli di legno fa sentire parte di una famiglia nuova, calda e accogliente, e la casa nel bosco è un rifugio pieno di risate, dove la sedia a rotelle è solo una poltrona un po' bizzarra.

lunedì 21 febbraio 2011

Uomini rana

Io e i miei coinquilini siamo come gli uomini rana. Sempre pronti a fronteggiare ogni emergenza, lanciati tutti imbragati dagli elicotteri dei servizi sociali, strisciando nella melma, oppure nella neve farinosa di Kingston, per portare a termine importanti missioni: infilare una supposta nel corretto orifizio, spalmare una lozione su pelli arrossate, atterrare con tecniche SCIP utenti fuori controllo, compilare 30 diversi moduli per il conteggio dei narcotici, disostruire vie aeree non pervie. 
Nel giro di due settimane abbiamo imparato ogni sorta di tecnica di sopravvivenza e se per caso qualcuno avesse il proposito di strangolarci alle spalle, si sappia regolare: siamo stati istruiti per immobilizzare ogni aggressore e, nel caso, propinargli allucinogeni sublinguali.
In America, chi decide di intraprendere una luminosa carriera nel sociale viene equipaggiato con una formazione assai eccitante e completa, che in pochissimi giorni ti rende un esperto vigile del fuoco, un campione di lotta greco-romana, un infermiere provetto e pure un volenteroso marine.
Le due persone chiave del nostro training newyorkese sono un donnone di colore imparruccato con un mocho sintetico, simpatica come un calcio nel sedere, e un veterano del Vietnam invasato che neanche un cocainomane di Milano.
Katrika, l'amabile istruttrice che ci attendeva nel Queens col suo migliore sorriso (molto simile ad una smorfia di disprezzo e fastidio), si è premurata di insegnarci le regole auree della somministrazione di medicinali agli utenti ed è grazie a lei se non imbratteremo più con gocce moleste l'etichetta dello sciroppo per la tosse, se quando ci laveremo le mani canteremo per trenta secondi “happy birthday to me”, se non conserveremo nello stesso frigorifero campioni di feci con del comune cibo, se scriveremo le nostre iniziali su ogni blister e per ogni maledetta pillola che prenderemo. Non importa se a causa sua abbiamo sprecato le nostre insignificanti giornate in uno scantinato a parlare di uretra, funghi della pelle e delle unghie, attacchi epilettici ed altri ameni argomenti, non importa nemmeno se abbiamo passato ore ed ore nella boardroom JFK dell'hotel a cercare di immagazzinare nozioni scontate in una lingua aliena, non importa perché Katrika ha fatto di noi dei professionisti al servizio delle multinazionali del farmaco, certificati da tanto di test finale.
L'altra figura che brilla di luce propria nel pantheon delle personalità da non dimenticare tra quelle conosciute quaggiù è sicuramente Roman, il nostro istruttore di primo soccorso. Dopo circa trenta secondi di deliranti sproloqui sulla forza di volontà, a tutti era chiarissimo che le successive sei ore sarebbero state un calvario inenarrabile, sia per noi che per quella malcapitata della sua aitante assistente-soubrette. Roman è stato nell'esercito (e a livello inconscio non ne è ancora uscito) e ha combattuto nel Vietnam, a quanto pare..., ma è stato anche pompiere, psicologo, fondatore di un'organizzazione benefica e tante altre cose che forse è meglio non conoscere. Il suo approccio alla materia richiama molto quello di Elvis Presley alla danza, mentre il suo modo di trattare gli allievi sembra tratto direttamente dal film Platoon. Di fatto, grazie a Roman noi tutti siamo attualmente detentori di una mascherina tascabile in plastica made in China per praticare la respirazione bocca-a-bocca e pure di un ego temprato dalla filosofia del self made man...non importa se abbiamo le idee confuse circa i principi cardine della rianimazione cardiopolmonare: in America per avere successo basta essere dotati di buone intenzioni (optional), self confidence e, soprattutto, muoversi con ritmo come Elvis.

domenica 20 febbraio 2011

Chiedi ai coccodrilli albini

L'ARRIVO. Quando apri gli occhi e ti rendi conto di essere sull'Harlem Bridge, la vista di tutto quel bellissimo, commovente, attesissimo cemento ti dà una sensazione struggente e ti porta addirittura a dimenticare la levataccia alle 5 di mattina, la paura del contagio da pulci in ambienti ristretti, la musica tamarra che i miei fucking roommates pseudo-adolescenti mi hanno propinato per quasi tre ore e, addirittura, la sindrome da schiacciamento dovuta alla presenza di un olandese di due metri seduto nel sedile di fronte.
New York è bella.
New York è come essere costantemente in un episodio di Spiderman.
New York è un film e la realtà attorno perde di consistenza, diventa eterea: solo i bar di Friends, le boutiques di Sex and the City, le strade di CSI sono reali.
New York è caotica, ma poco più di una Milano alle sei di sera.
L'arrivo è elettricità pura.

I COLORI. New York è nera come il cuore dell'Africa, ma solo a tratti. Nel Queens, dove si trovano sia il nostro albergo che la sede dove avremo lezione, siamo gli unici palliducci sulla piazza.
Siamo anche gli unici a non indossare una parruccona con boccoli degni di una Shirley Temple di colore, a non avere unghia acriliche lunghe dai cinque centimetri in su e colorate che neanche dei murales cileni, a non camminare come se fossimo costantemente in un video di Puff Daddy e a non ricettare parti di Dodge tutte arrugginite.
New York sa anche essere bianca più del mio latte di soya Wal Mart ogm e se dal Queens ti muovi nella subway verso Manhattan, puoi renderti conto di come la fauna umana cambi a seconda della geografia.
Chinatown aggiunge alla tavolozza della città una vasta gamma di sfumature del giallo, il tutto condito con gli effluvi emananti dai ristoranti più a buon mercato di tutta NY.
Parallelamente al fenomeno cromatico, l'attento antropologo noterà anche un consistente abbassamento del peso medio della gente ed un progressivo slittamento dalla moda hip hop a quella radical chic.

LE LINGUE. New York è una torre di babele che ti shakera i neuroni senza pietà. Bisogna farsi attraversare dal flusso di idiomi cercando di trattenere il necessario per la sopravvivenza.
Alla fine ce la si fa, ma nella teca cranica albergano vocaboli multicolore in almeno 3 lingue diverse: inglese, spagnolo e italiano.
Il saggio antropologo sa che ciascuno ama dialogare nel proprio idioma, ma a NY chi più di tutti si gode il sapore dell'esprimersi nella lingua natia sono i latinos. Ne sono un esempio i miei negozianti preferiti (nonché dispensatori di caffè con azúcar, pero sin leche), un simpatico trio messicano con tanto di gatta in calore pronta a farsi le unghie sulle scorte di cibo della bottega, in barba a tutte le norme igienico sanitarie. Avreste dovuto vedere come gli si sono illuminati gli occhi la prima volta che mi sono rivolta loro in spagnolo...e poco importa se era per dire che sono una cippa in fatto di salsa e merengue, nonostante abbia preso lezioni su lezioni.

YELLOW CABS. Guizzano come anguille nella caotica NY, attraversando i famosi getti di vapore sputati dai tombini, dribblando ambulanze, macchine e persino qualche impavido ciclista, facendo finta che nella city sia in vigore una moratoria circa i limiti di velocità.
Le yellow cabs sono anche utilizzabili dall'attento antropologo come indicatore delle capacità di adattamento di una popolazione. E in questo pare che i russi non abbiano nulla da invidiare a nessuno: il nostro tassista, catapultato nella Grande Mela direttamente dall'Unione Sovietica, conosce le strade tanto bene da non avere nemmeno bisogno di guardarle! Dopo averci stipati in circa 8000 sul suo potente veicolo, ci ha portati sani e salvi all'hotel, cercando un improbabile canale di comunicazione col nostro compare olandese. Pare che l'inglese non si sia prestato troppo bene allo scopo, ma forse nel tragitto ha preso forma un dialetto comune, come la koinè o simili.

I COCCODRILLI NELLE FOGNE. Pur non avendone incrociato nessuno, ne sentivo distintamente la presenza nel sottosuolo. Dopo i tassisti russi, i coccodrilli albini sono gli esseri più ferrati in newyorkologia, geograficamente parlando.
Ovviamente, il loro punto di vista è piuttosto sotterraneo, perciò ignorano a che altezza della sesta strada si trovi il Forever 21, o in quale negozio convenga comprare la tazzetta con sopra scritto “I love NY”. Ma affidatevi a loro senza timori in materia di subway o di idraulica.

LE PULCI. Non importa a che ora tu ti sia alzato, quanto tu corra veloce, di quante lozioni a base di napalm tu ti sia cosparso o per quante ore tu abbia tenuto le tue mutande nel freezer: se sei un baldo giovane spilungone olandese, le pulci ti seguiranno ovunque.
Anche nella Grande Mela.
Senza pietà.

L'E-BOOK. Devi averlo. Se vai a New York e ti azzardi ad utilizzare un supporto cartaceo, sei fuori. Se, in metropolitana o sull'autobus, sei talmente tracotante da sfogliare un libro, vedrai occhi tracimanti disapprovazione accanirsi su di te. E quelli più carichi di disprezzo apparterranno sicuramente alla vecchina di colore che sta leggendo la e-Bibbia proprio di fianco a te.

PARIS HILTON. A lungo attesa, non si è mai palesata presso il nostro hotel, sebbene anch'esso appartenga alla sua famiglia. In ogni caso, la sua presenza glamour e un po' piccante aleggiava per ogni angolo dell'albergo, tanto che potevi immaginartela puntare l'indice di condanna e arricciare il naso in segno di disgusto di fronte all'improbabile tubino di ciniglia fucsia di un'ospite.

LE LUCI. La città non dorme mai e non ha nemmeno il segno di mezza occhiaia.
Al calar della sera, tutto si illumina, non in modo osceno o pacchiano, ma con classe, piano piano e mai chiassosamente. Come disse il saggio Bas, a NY vorresti avere più occhi, specialmente se ti trovi sul ponte di Brooklyn quando il buio inizia ad incorniciare grattacieli e chiese. Le luci qui sembrano parlare, ma in modo vellutato, per non disturbare il rombo della traffic jam all'ora di punta.
A Times Square, invece, le luci gorgheggiano come adolescenti il sabato pomeriggio e potete chiedere conferme fotografiche a Kamala: lei ha circa un milione di scatti della celebre scalinata.

LA PARTENZA. Da New York te ne vai sottovoce, quasi vergognandoti per la mancanza di educazione. Vorresti salutarla meglio, con più calore, con meno pulci, ma già sai che ci tornerai a breve. Il saluto alla Mela è comunque lungo e a tratti assomiglia ad un'agonia: l'ingorgo di macchine del venerdì sera me lo fanno digerire a suon di musica tamarra e cibo indiano e l'arrivederci ha il sapore del cumino misto a smog.

domenica 13 febbraio 2011

Il sabato del villaggio

Metti un sabato mattina di febbraio a Kingston, NY.
Metti due italiane e una nepalese a piedi e senza gps e aggiungici pure il deserto più totale e una coltre di neve ghiacciata intorno.
Il risultato è una piacevole passeggiata nella provincia americana, apparentemente popolata solo da ragazze sovrappeso sorseggianti la Budweiser mattutina sulla veranda di casa, chiese for sale, negozi messicani chiusi quando ne hai più bisogno e omoni di colore che, Bibbia in mano, si recano in chiesa con le loro cravatte caraibiche, accompagnati da mogli con vistosi cappellini anni '50.
Metti che la nostra destinazione sia proprio la chiesa di Brother J ed avrai un quadro completo della mattinata, iniziata peraltro con l'ennesima debacle culinaria dell'italian cook (che sarei io), questa volta con i croissant vegan.
Ma chi è Brother J? Mister Johnson è un nostro collega, vegan, avventista del settimo giorno e, soprattutto, predicatore nella church dietro casa...che senza gps e senza una telefonata ad un amico nel Texas (!!!) non avremmo mai raggiunto. Brother J è una delle persone più simpatiche e piene di gioia di vivere che abbia conosciuto qui in America, anche se, a dire il vero, capisco circa il 60% di quello che dice, mentre per il restante 40% vado sulla fiducia: è vegan e tiene predicozzi gospel style col sorriso sulle labbra, quindi non può essere tanto male!
Oggi Brother J ha parlato della depressione, che ci può cogliere in qualsiasi momento e in ogni dove, ma è difficile pensare che gli arzilli vecchini presenti possano soffrire di questo male, perché sembrano tutti così pieni di vita ed entusiasmo, tanto che ogni due per tre urlavano “yes, man!”, annuendo al Brother J.
A dire il vero, siamo rimaste solo per la lezione sulla Bibbia e la messa ce la siamo scampata, perché il timore era quello di venire coinvolte in un coro tipo Sister Act dalla durata, appunto, biblica.
Il tipico sabato della provincia americana prosegue col tipico pranzo a base di pane e crunchy peanut butter (che peraltro sarà anche il piatto forte della mia cena) e la tipica lezione di guida alla coinquilina nepalese, alla quale ho spacciato un'innata abilità nella conduzione di veicoli ed un'approfondita conoscenza della segnaletica statunitense. Però non siamo finite in nessun fosso e non abbiamo investito nessun animaletto gioioso, né alcun americano obeso e, come ricompensa per il grande impegno, la mia pupilla si è concessa una seduta da una parrucchiera feticista di Audrey Hepburn, mentre io mi sono regalata anni in salute auto-offrendomi un caffè al bar di fianco, dove ho stretto significativi legami di amicizia con un astrologo di origine siciliana e con un cameriere messicano che mi aiuterà a practicar español...aggravando in tal modo la mia già vistosa schizofrenia linguistica.
Nel classico sabato della provincia, non ci si può far mancare la merenda al ristorante cinese, la visita al negozietto indiano che vende tofu, la tempesta di neve, la gita al Wal Mart per comprare il quinto gps che abbiamo in casa e il detersivo per la lavanderia automatica.
Tipicamente, dopo il burro di noccioline, la serata prosegue con una capatina al bar più stiloso di Poughkeepsie, dove si fatica a farsi largo tra i tamarri, sperando che il dj sia al più presto colto da pietà e la finisca di mettere musica inutile e nociva.
Il sabato tende poi generalmente a concludersi con gustose scenate isteriche del coinquilino olandese seminudo e urlante ai quattro venti (nella sua lingua natale) di avere dei problemi con le pulci, anzi le “fottute pulci”.
Rimane solo da finire, lentamente, la tisana allo zenzero che qui tutti schifano e sperare, nell'ordine, che le pulci non travalichino il confine tra le stanze contigue, che lo stimolo urinario non mi svegli nel cuore della notte (che comunque è già passato) e che domani qualcuno mi faccia tornare la voce che stasera ho miseramente perso sul dance floor.

martedì 8 febbraio 2011

De Rerum Natura

Qualcuno dovrebbe elaborare una scala per misurare quanto un europeo corra il rischio di subire una strisciante ed invadente americanizzazione dei propri costumi. Io potrei suggerire alcuni indicatori, sui quali ho avuto modo di riflettere negli ultimi giorni.
I principali riguardano la dieta e, a questo proposito, il trovarsi nel cuore della notte a ingurgitare, fetta dopo fetta, chili di pane con crunchy peanut butter potrebbe essere considerato un segnale d'allarme.
Per quel che mi riguarda, potrei tracciare una parabola discendente che, a partire dall'ormai nota pasta americana cotta in una tortiera per ciambelle, oggi ha raggiunto un punto miseramente basso con la mia indimenticabile preparazione di pasta e broccoli con origano e...zucchero! Credo che il mio inconscio mi stia comunicando messaggi che anche Freud si vergognerebbe a decifrare: com'è possibile mettere origano e zucchero sui broccoli? Solo l'abuso di droghe potrebbe fornire una dignitosa spiegazione alla cosa. E nel mezzo della parabola discendente ci metto l'assuefazione alla vista di giovani olandesi mangia-pasta-con-ketchup, la dipendenza da caffè annacquato contenuto in scatoloni di cartone da 3 litri, il panino di dimensioni epiche contenente vegetali che nemmeno Madonna nel pieno della sua gravidanza avrebbe osato mischiare.
Altri indicatori hanno attinenza con il vestiario perché, sebbene certa gente (me compresa) si vesta generalmente peggio della Regina Elisabetta, qui la tendenza all'orrido prende una china davvero, davvero pericolosa, portando ad osare accostamenti cromatici che neanche Ray Charles avrebbe fatto propri e a non curarsi del fatto che le proprie scarpe abbiano ormai cambiato colore a causa della fanghiglia grigiasta e nevosa che imbratta le strade, perché tanto, alla fine, ci vestiremo tutti come boscaioli del Minnesota, con camicia di flanella a quadretti e scarponi fatti apposta per calpestare terre brulle e algide.
Anche la tendenza al gigantismo è un gran brutto segnale: se fino al mese scorso prendevate il sacchetto di patatine da 200 grammi, oggi non vi basterà nemmeno quello da 500; se prima eravate amanti delle macchine piccole e facilmente parcheggiabili, ora vi sorprenderete a dire “come vorrei un pick up!”; se in passato i piccoli negozietti di artigianato erano la vostra passione, sarete inevitabilmente risucchiati dal vortice consumistico del Walmart, dove peraltro non comprerete nulla di realmente utile.
Infine, siccome in questo paese accadono eventi bizzarri, lentamente inizierete a non stupirvi più di cose inusuali. Io, ad esempio, ho reputato del tutto normale ritrovarmi a sturare un cesso a Poughkeepsie con una ventosa per titani, oppure scoprire avere un capo avventista del settimo giorno e vegano. Nemmeno la vicina si è stupita di vedermi uscire di casa reggendo un barattolo contenente un insetto da liberare nel gelido inverno, né io, da parte mia, ho trovato strano che mi dichiarasse (cinque minuti dopo esserci conosciute) di voler fare la “fashion designer” a Milano; non mi è parso nemmeno tanto improbabile che la persona che al lavoro ci ha spiegato come sollevare utenti paralizzati, ci abbia poi raccontato la propria vita in stretto dialetto ciociaro, pur essendo lei nata a Brooklyn.
Credo che l'unica arma da opporre a questa mutazione da X-Men sia il latino.
Già, il sentir pronunciare vocaboli latini con agghiacciante accento americano ha su di me il potere di richiamarmi alle origini e alla mia italianità. Oggi la parola “addendum” in bocca ad una americana mi ha fatto accapponare la pelle e, al contempo, mi ha scosso dall'ottundimento statunitense nel quale il Walmart disease mi aveva fatta piombare.
Siamo italiani, santi numi! Via quelle orride ciambelle dalla bocca!
Un po' di Cicerone e di Lucrezio ci salveranno!

sabato 5 febbraio 2011

Coffee&pee

Quanto caffè americano può essere inserito (non importa come) in un corpo umano (ma non americano) senza che questo ne rimanga in qualche modo offeso, ricavandone danni permanenti?
Onestamente, credo che il mio organismo prima o poi svilupperà strane mutazioni dovute alle quantità colossali di brodaglia primordiale con caffeina che ieri ho dovuto ingurgitare per non soccombere alla stanchezza e poter portare le chiappe cromate della Sweet Princess qui a casa nello stato di NY. I 600 chilometri di higway dal Maine a Kingston mi hanno fatta piombare in una sorta di realtà parallela, costituita perlopiù da crampi alle braccia e alla gamba destra, allucinazioni a sfondo mistico, ma anche trash (vicino a Portland, mi pare di avere incrociato gli Abba che facevano l'autostop), cibo mangiato lanciandolo al volo, patetici tentativi di training autogeno in inglese e italiano, bicchieri plasticosi di caffè annacquato.
Ed è proprio il caffè che devo ringraziare per quello che sono oggi: una persona con una casa nello stato di NY e, in ogni caso, una persona che non è svenuta all'ottava ora di guida.
Al quarto bicchierozzo ho perso il conto, quindi non saprei dire quanta energia-caffeina un italiano medio possa ricavare da un litro di caffè americano, ma sono assolutamente in grado di consigliare un preventivo inserimento di catetere se si ha in programma un lungo viaggio in macchina negli States e si vuole evitare di finire nella spirale del “coffee&pee”.
Il sistema funziona così: al primo bicchiere da mezzo litro senti di avere il mondo in pugno e guidi per un'oretta canticchiando ogni schifezza che passa la radio, ma improvvisamente ti accorgi di avere una vescica che reclama un po' di luci della ribalta ed è esattamente qui che ti rendi conto di avere attivato il perverso meccanismo che, caffè dopo caffè, area di servizio dopo area di servizio, ti rende schiavo dei cessi dei fast food e dela brodaglia caffeosa. Se, da una parte, questa condizione da tossicomane incontinente fa di te un essere per molti versi miserabile, dall'altra ti permette di raccogliere interessante materiale per un trattato antropologico sulla fauna umana che le highway vomitano e reingurgitano nelle aree di servizio e ai margini delle uscite.
La mia tipologia preferita è l'inserviente dei fast food sulla trentina che, frustrato dal puzzo di fritto e dalla capa tiranna e un po' stronza, riesce comunque a preservare la propria indole mansueta e gentile, anche se dovrebbe in genere curare di più la propria igiene orale.
Ho molto apprezzato anche anche il tipico benzinaio del Massachusetts, che sa unire alla rude forza del boscaiolo mormone un'inaspettata pazienza verso lo straniero sperduto e incapace di usare la gas pomp.
Vanno menzionate pure le seguenti categorie: mamme “proud” del figlioletto/a che nei bagni del fast food è riuscito a centrare il cesso, maniaci sessuali in pensione che attendono invano sexy turiste che mai passeranno da lì e casalinghe sovrappeso che vanno a trovare i parenti ad Augusta.
Ora che sono comodamente seduta in una villetta a tre piani senza serratura alla porta (a che serve?), in un paese che ha più chiese che abitanti, dove l'attrazione finora più significativa sembra essere Beppe's Cucina...ecco, ora rimpiango un po' quella vertigine dell'essere on the road, lanciati su di una Plymouth purple verso NY, con il nulla alle spalle e il nuovo mondo lì ad attenderti, alla fine della highway.

giovedì 3 febbraio 2011

Nel Maine...

Il Maine riserva grandi sorprese. Pensi che lo stato sia popolato unicamente da schiere di cittadini efficienti nello spalare la neve dal proprio vialetto e pure da quello del vicino, da impiegati di banca incredibilmente gentili (come l'Andrew che oggi mi ha cambiato circa 8000 traveler checques e mi ha pure offerto un dolcetto), di serie housewives sovrappeso che fanno la spesa con parsimonia e oculatezza...e poi, improvvisamente, la notte rivela dettagli che forse erano facilmente intuibili anche alla luce del sole: nel Maine, di sera, non c'è una cippa da fare e la gente se ne esce di testa infestando squallidi pub con juke box ultramoderni e lanciandosi in danze al limite degli atti osceni in luogo pubblico. Mi riferisco in particolare all'allegra schiera di ragazzotte autoctone che l'altro giorno ho avuto l'onore (e l'onere!) di vedere impegnate in danze hard e finto lesbo, con il tristo scopo di sedurre un paio di poveracci più interessati alla birra che ad un paio di sederi impazziti.
Nemmeno l'aver bevuto a stomaco pressoché vuoto mi ha aiutata a riprendermi dalla visione!
Il Maine è anche un paese dove nessuno si stupisce se un italiano, preso da sconforto e saturo di panini alla mostarda, si mette a cucinare della pasta in una tortiera per ciambelle, mettendola direttamente sul fuoco.
Ed è un luogo dove i rivenditori di macchine usate non fanno fatica a prenderti sul serio quando affermi che, essendo tu originario della città più modiaola d'Europa, hai scelto la tua propria macchina basandoti principalmente su complesse questioni cromatiche relative all'abbinamento del veicolo agli accessori della collezione spring-summer.
E qui vorrei aprire una parentesi, dedicando un paio di righe alla mia Sweet Princess: la mia tamarrissima Plymouth Neon del 2000 color trasù di ciuc, che domani mi condurrà nello stato di New York.
Di questa macchina posso solo dire di averla amata fin dal primo momento che l'ho vista e di aver avuto la certezza di volerla non appena appoggiato il mio deretano sugli immacolati sedili, imbottiti come un tenero pupazzetto. Mentre la portavo a casa, ci siamo parlate: io le ho detto che mi sarei presa cura di lei imparando a controllare la pressione delle ruote, a cambiare l'olio e a lavarla assai di frequente, ma le ho chiesto di non mollarmi con le pezze al sedere nel bel mezzo di una snow storm o su di una sconosciuta highway. Lei, la mia Sweet Princess, come risposta ha prodotto un inquietante suono di plastica rotta dalla frizione e penso che domani chiederò un consulto a Chris il meccanico. Credo che anche lei mi ami, ma forse fatica a dimostrarlo.
Tornando al Maine, una cosa che mi ha molto colpita è la sua natura di buco nero. Dove cacchio ingurgita le strade che prima conoscevo? Dove fa finire motel e uffici nei quali ho passato giornate intere? Perché i punti cardinali vengono shakerati tanto da disorientare persino il mio americanissimo gps (che ha pure la mappa di Portorico!!!)? La neve non è una spiegazione sufficiente, e io mi permetterei di tirare in ballo i nodi magnetici sotterranei e le macchie solari per gettare luce sull'increscioso episodio del post Wal Mart. Suddetta vicenda ha coinvolto, oltre alla mia persona, anche una tale salentina amante di Dodge tamarre ed una babuska ucraina che in genere si diletta a parlare in russo con attoniti orsetti di peluche, ed è consistita in circa un paio di ore di delirio automobilistico che ci è costato galloni e galloni di benzina, consumati macinando chilometri nel nulla innevato e totalmente buio. In due parole: uscite dal Wal Mart col gps in mano, ci siamo miseramente perse e abbiamo dovuto far mestamente ritorno al motel, dopo aver tentato invano di raggiungere i nostri compagnucci all'ufficio dell'organizzazione.
Non credo sia colpa nostra: l'increscioso evento è sicuramente attribuibile alle peculiarità del Maine.
Domani tenterò di allontanarmi dalla patria di Stephen King e Jessica Fletcher per trovare fortuna nello stato di New York. Spero quaindi che le divinità protettrici dei tamarri mi guardino con occhio bonario e che il vento del Maine spiri favorevole sulle vele della mia Sweet Princess, almeno quel tanto che basta per farmi arrivare alla mia nuova casetta.