domenica 11 novembre 2012

Dispacci dai ghiacci - La mia vita con Larry

Una nevosissima domenica mattina, il Larry è venuto a prelevarmi da Spruce Grove a bordo del suo gigantesco pick up, sfoggiando occhiali da sole Ray Ban nel mezzo della tempesta di neve e fumando come un turco col finestrino abbassato a -10°C.
Quel giorno, lungo il tragitto per Mill Woods, quartiere nella parte meridionale di Edmonton dove il Larry vive, abbiamo incontrato una media di una macchina finita nei fossati laterali ogni mezzo chilometro...inutile dire che, per quanto le strade vengano percorse dagli spazzaneve, cade talmente tanta neve che, ad un certo punto, non si sa davvero più dove metterla e ci si deve adattare a schivare i cumuli più massicci e a sterzare e controsterzare come in un videogioco ambientato tra i ghiacci.
La casa del Larry è una villetta bellina in mezzo ad altre villette belline...ma mentre tutti i vicini hanno il cortile ed il marciapiede di fronte liberi da ghiaccio e neve e perfettamente puliti, l'area del Larry è una selvaggia montagna ghiacciata, dalla quale gli sparuti pedoni si tengono decisamente alla larga.
Larry ha sessantadue anni, una ex moglie che lo detesta, una moglie defunta della quale parla costantemente, due figli sovrappeso che vivono in Alberta ed una figliastra che sta in Ontario col marito, ha anche tre nipotini, ma vive da solo con tre gatti pelosissimi. Credo mi affitti la stanza non per soldi (e infatti pago davvero poco, rispetto ai prezzi edmontoniani), ma perchè si sente solo. Mentre taglio i rasta che nel corso degli anni si sono accumulati tra i peli dei gatti, Larry parla; mentre cucino alghe poco commestibili e noodle plasticosi, Larry parla; Larry parla persino quando sono al telefono via skype con amici e parenti e continua a parlare anche mentre ci guardiamo The Big Bang Theory o CSI. È un fiume in piena e le sue perle di saggezza toccano tutto lo scibile umano: politica, alimentazione, lavoro, morte, amore e vita coniugale. Ma soprattutto, Larry ama parlare di sesso e pornografia perchè, dice, chi non ne parla lo fa per ipocrisia, pur pensandoci costamente e perchè il sesso è un aspetto fondamentale della troppo breve vita degli esseri umani. Non simpatizza con gli Americani, che trova arroganti, nè con i Pachistani, che a Mill Woods sorpassano in numero i Canades; è anche convinto che, a causa di persone come me, la terra corra il rischio di essere invasa da mucche, maiali e compagnia bella e di finire totalmente ricoperta di alberi ed erbacce...una tragedia, insomma! Inutile dire che passiamo intere serate a discutere di bistecche e tofu, mentre polvere e peli di gatto si accumulano minacciosi su pavimenti, mobili, suppellettili e sui nostri stessi corpi...ma tanto settimana prossima verrà la diciannovenne lesbica a pulire casa e Larry attende con trepidazione questo momento!
Insomma, trovando il Larry, ho vinto la lotteria!
Mill Woods, poi, non è malaccio: è un quartire tranquillo (anche se fino ad un annetto fa gang di Pachistani ed Indiani si fronteggiavano a suon di rivoltella) e i mezzi di trasporto sono piuttosto frequenti...anche se, a dire il vero, i manager dell'Edmonton Transit System, che pago ben 84 dollari al mese, sono probabilmente affetti da schizofrenia. Esistono, infatti, una miriade di linee che manco a NYC, ma se devi percorrere una linea retta, ad esempio la sessantaseiesima strada, devi cambiare tre autobus nell'arco di dieci minuti, perchè tutti percorrono rotte barocche che lasciano basiti anche i passeggeri più navigati. E se cerchi aiuto con Google, sei fregato! Nessun motore di ricerca ha la capacità di stare al passo con i repentini cambiamenti di percorso con cui l'ETS cerca di movimentare gli altrimenti piatti inverni edmontoniani. Peccato che, quando devi attendere per interminabili minuti un pullman che non passerà mai o ti devi trascinare da una fermata all'altra perchè la rotta è stata subdolamente cambiata a tua insaputa, i -18°C non aiutano a preservare la tua sanità psico-fisica.
Qualche giorno fa sono andata all'ennesimo colloquio e sembravo Marilyn Manson perchè, dopo due ore di viaggio nella snow storm e tre bus cambiati, il mio mascara si era orribilmente disciolto su tutto il mio viso congelato. Non credo otterrò quel lavoro...
E parlando appunto di ricerca del lavoro, nel giro di due settimane ho fatto circa sei colloqui, ho lavorato come visual merchandiser notturna (allestivo in modo “fighetto” e “trendy” il reparto surgelati di grandi catene...ovvero, non c'è scampo ai ghiacci!) e sono stata assunta da Lowe's, una specie di Castorama nordamericano. La ricerca continua e settimana prossima avrò altri tre colloqui. In Alberta si produce e, soprattutto, girano tantissimi soldi grazie alla presenza delle famigerate sabbie bituminose, dalle quali si estraggono immani quantità di petrolio in campi dispersi nel deserto più ghiacciato, dove i lavoratori vengono deportati in aereo per turni lunghi due settimane o più. Certo, lo stipendio che ricevono è da capogiro, ma che difficoltà cavare petrolio dalla terra!
Ora passo e chiudo, che il Larry ha iniziato a parlarmi dell'infedeltà coniugale...

venerdì 9 novembre 2012

Dispacci dai ghiacci - lo sbarco!

L'avventura canadese inizia con una folle corsa all'alba verso Newark, un po' la Orio al Serio di New York...cioè, si trova in New Jeresy, ma tutti si ostinano a definirlo “aeroporto di NYC”.
Kamalita e Sushil, un amico indiano, si offrono di accompagnarmi alle 4 del mattino ma, siccome il suddetto Sushil ha giustamente sonno, mi devo autotrasportare, guidando per due ore un mega suv secondo le ingarbugliate indicazioni stradali indo-nepalesi...inutile dire a momenti perdo l'aereo.
Dopo le drammatiche scene di congedo (ormai è appurato che io abbia qualche problemuccio con gli arrivederci), m'imbarco per Calgary con una tale espressione da deportato, che riesce addirittura ad impietosire la glaciale addetta al body scan, strappandole un compassionevole sorriso di solidarietà.
Sull'aereo vengo colta da un attacco di panico quando noto che sul display è indicata come destinazione FORT McMURRAY, nel nord che più nord non si può dell'Alberta. Sconvolta, mi guardo intorno, cercando conforto negli altri viaggiatori, ma tutti dormono, così mi faccio coraggio e arranco fino alle hostess, le quali stanno lavorando a maglia (!!!) negli ultimi sedili del velivolo. Pallida e tremolante, chiedo loro se, in effetti, stiamo davvero andando a Calgary oppure a congelarci le chiappe tra gli Inuit e loro, serafiche, mi dicono “grazie sweetie per avercelo fatto notare! Quel computer fa le bizze...adesso lo sistemiamo”. Bene! Ritorno al mio posto con dei forti dubbi sulla sicurezza delle compagnie aeree canadesi, ma tranquilla rispetto alla destinazione.
Dopo un piacevole volo allietato da amene conversazioni con affabili canadesi (e già mi mancano gli spacciatori di crack di Poughkeepsie...), sbarco a Calgary, dove mi tocca aspettare un'ora e passa per la coincidenza, dato che una tempesta di neve sta causando ritardi su ritardi. Quando finalmente ci imbarcano su un trabiccolo degli anni Settanta, largo due metri e lungo 5 (tanto che il mio trolley non ci sta in stiva!), noto di essere l'unica donna a bordo, a parte la grezzissima hostess, in mezzo a rudi lavoratori del petrolio. A questo punto mi è palese come forse io non stia esattamente andando a vivere in una meta turistica tra le pù gettonate.
Ad Edmonton fa, ovviamente, un freddo becco e nevica. Nessuna traccia del sole. 
Con i potentissimi mezzi di trasporto locali, ci metto circa tre ore a raggiungere la ridente località di Spruce Grove, paesotto a nord della città, dove una famiglia pachistana mi attende. E come ci sono finita io nei sobborghi di Edmonton? Semplice, dal momento che non riuscivo a trovare nessuna stanza in affitto, a parte a casa di un tizio psicolabile che mi ha tenuta in ballo per due settimane, mi sono rivolta al collega pachistano di Kamalita il quale, guarda caso, ha una sorella che vive nei dintorni di Edmonton. Siccome tale collega ha un debole per me (alla faccia di moglie e figli...) al mio arrivo non solo dispongo di una camera ma anche di un potenziale lavoro...nella gelateria di famiglia! L'idea di vendere gelati quando si hanno medie di -12°C potrebbe parere aberrante ai più ma, dopo aver passato due giorni in compagnia di una filippina a dispensare ice creams ai canadesi, ho dovuto riconsiderare il mio punto di vista: la gente ama avere la stessa temperatura sia esternamente che internamente. Questa è l'unica spiegazione possibile.
La mia love story con la provincia edmontoniana è tristemente terminata dopo circa tre giorni di via crucis pedonale nei ghiacci e le principali cause della rottura sono appunto da ricondursi alla totale assenza di mezzi trasporto che non solo mi obbligava ad andare alla gelateria camminando per mezz'ora nella tormenta, ma mi avrebbe perennemente bloccata a Spruce Grove per tutto il week end, dal momento che quei due o tre autobus che collegano la cittadina ad Edmonton, vengono sospesi durante il week end.
Ed è così che, tramite un drammatico annuncio su craiglist, il Larry è venuto a raccattarmi per portarmi in città...ma questa è un'altra storia...

lunedì 1 ottobre 2012

La minuziosa preparazione di un viaggio

Famosa per la mia lungimiranza nel prepararmi ai vari eventi della vita (esami, lauree, parti altrui, saldi di fine stagione...), sto col tempo migliorando le mie prestazioni, rendendo la corsa dell'ultimo minuto sempre più avvincente e pittoresca.
Per esempio, sono le tre del pomeriggio e il mio aereo partirà domattina alle 6.30 da Malpensa. Io sono in pigiama e sto aggiornando questo blog, mentre ancora si ode in lontananza la lavatrice risucchiare lo sporco da vestiti che dovrò portare con me. No problem: tra poco (o molto), forse alzerò le chiappe da questa sedia di paglia un po' sfondata e andrò alla lavanderia a gettoni ad asciugare calzemutandejeans lastminute.
Sorseggio acqua firzzante e so che non ho ancora stampato biglietto nè pagamento dell'esta. Del resto, non ho nemmeno iniziato a fare la valigia. E spero di aver prenotato il pasto vegan sul volo, anche se non ne sono poi così sicura.
Ma dove vado? La domanda suona stranamente priva di significato. Non lo so, dove vado. Cioè, domani dovrei atterrare a New York verso mezzogiorno e ancora non ho capito se la fida Kamalita verrà a prendermi o meno...ma immagino che il fatalismo nepalese farà sì che l'arcano venga svelato solo all'atterraggio.
Una volta giunta in qualche modo a Poughkeepsie, dovrei poi vagare di casa in casa per una decina di giorni, ospite di amici più schizofrenici di me. Se il piano iniziale prevedeva una permanenza nel gioioso upstate NY di poco più di una settimana, due giorni fa ho piacevolmente scoperto di essere stata prescelta per accompagnare Kamalita a San Francisco, dove avrà un importantissimo colloquio relativo al suo visto. Come fare a mandarla da sola nell'assolata California? Ma anche, con cosa pagare il biglietto? Un po' di carrubbe ed un paio di cicerchie? Fatalismo, fatalismo...
E poi? Poi, poi, poi...il poi prende le sembianze innevate del Canada, ma a nessuno è dato sapere se si tratterà della fighetta (si fa per dire) Calgary (che per lapsus chiamo sempre “Cagliari”) o della petroliosa Edmonton, popolata da lavoratori spartani.
Se inizialmente la scelta era caduta sulla seconda città, le grandi difficoltà nel reperire una stanza mi avevano spinta a cercare alloggio in quel di CalgaryCagliari, per poi tornare sui miei passi ad ogni mail ricevuta da un posto o dall'altro. Attualmente ho visionato circa 8000 foto di case e stanze e conosco il mercato immobiliare dell'Alberta molto meglio di un qualsiasi immobiliarista autoctono.
Ovviamente non ho ancora concluso nessun affare, ma so che molto probabilmente l'ex inquilino di uno zio di Kamalita (che lei peraltro non ha mai visto) potrebbe trovarmi una stanza ad Edmonton. In Nepal we trust!
Intanto, continuo a far pescare bigliettini con i nomi delle due città ad amici e parenti e l'altro giorno io e la Gabry abbiamo passato un'ora alla Feltrinelli consultando la guida del Canada...no comment!
La ricerca del lavoro sarà un altro paio di maniche, ma forse è meglio pensare prima a come imbottire i vestiti in vista di inverni che possono arrivare a -60 (!!!) gradi. E tutti a giurare che, essendo il clima secco, il freddo sulla pelle è meno freddo di quello sulla carta. Mah...
Insomma, viaggio un po' come vivo, alla cieca, in modo avventato ed assolutamente illogico.
E ora mi tocca andare alla lavanderia a gettoni ad asciugare i miei miseri averi stracciformi.
Che il vento soffi poprizio sulle mie vele (rattoppate)...

lunedì 24 settembre 2012

La lista della spesa


Mentre Mortadella, una carlina bavosamente affettuosa, mi guarda da oltre il cancelletto per bimbi che impedisce a lei e ad una famiglia di Beagle di imbrattare del loro amore la mia stanzetta colorata, mi bevo del vero caffè italiano e mi prendo il mio tempo (giorni di pioggia, giorni di pigrizia autunnale) per aggiornare questo blog, abbandonato da tempo immemore, un po' come una fabbrica greca in tempo di crisi.
Gli accadimenti sono stati molti ed una lista della spesa, di quelle scritte su supporti improvvisati, mi sembra il modo migliore per sintetizzare cos'è successo in questi ultimi mesi.
Ecco dunque cosa avrei dovuto comprare nelle varie vicissitudini della mia vita:
  • Repellente per zecche: quando si campeggia in un parco naturale della Virginia (nello specifico, lo Shenandoah National Park) non si dovrebbe mai sottovalutare l'insidiosità della natura. Siccome l'effetto “week end lungo del Memorial Day” aveva saturato i campeggi convenzionali, io e Yunkyeong abbiamo deciso di girare un sequel italo-coreano di The Blair witch project, accampandoci con la nostra tenda nuova di pacca nel mezzo della foresta più selvaggia. Al di là dell'emozione di bere birra mentre tutt'intorno si odono cervi saltellare felici (pregando che gli orsi decidano di cibarsi solo di turisti americani) e al di là anche del privilegio di poter dormire con secolari radici conficcate nella schiena, il campeggio libero si può risolvere in un giro della speranza alla ricerca di un ranger disposto a rimuovere la zecca che ha deciso di impiantarsi nel proprio ombelico. Il termine tecnico della mia reazione all'evento è “freaking out”, cioè andare giù di testa, e l'unica soluzione trovata a tale fenomeno (peraltro piuttosto frequente) è l'impassibilità asiatica, che ha permesso a Yunkyeong di trovare il coraggio per rimuovere il corpo estreneo accozzatomisi e persino l'ardire di scattare una fotografia alla povera zecca.
  • Pomata all'arnica: quando un ingegnere giapponese ti porta a scalare le pareti colorate di un garage a New Paltz, è necessario preventivare copiose produzioni di acido lattico e fastidiosi crampi da nerd non avvezzo a nessun tipo di sport. Se per curare i dolori di arrampicate poco professionali è sufficiente un unguento, ci vuole qualcosina in più per curare le ferite dall'amor proprio leso, anzi brutalmente calpestato da un ragazzino di dieci anni che ci ha messo trenta secondi netti per scalare una parere alla cui base ero appesa come uno stoccafisso da circa mezz'ora.
  • Una rampa in legno massello: a fine luglio, scaduto il nostro prestigiosissimo contratto di lavoro, io e i miei tre coinquilini abbiamo dovuto abbandonare la magione medievale e pulciosa nella quale eravamo insediati da circa un anno e mezzo. Mentre mobili vintage (per usare un eufemismo...) e padellame vario erano di proprietà della nostra agency, l'ormai leggendario piano che, mesi prima, avevamo a fatica trascinato dentro casa riscattandolo dal pattume, costituiva l'unica nostra proprietà...se non si considerano le tende che ho rimpicciolito con un'audace asciugatura nelle dryer della Big Bubble laundromat. Dal momento che il peso del pregiatissimo strumento eguagliava quello di otto o nove Pavarotti messi assieme, la nostra generosa boss aveva messo in chiaro fin da subito che quell'oggettino da collezione ce lo saremmo dovuto spostare da noi, pena l'addebito di circa 300 dollari. Dopo disperati tentativi di rifilarlo ad amici, conoscenti e perfetti estranei, risoltisi in miseri buchi nell'acqua, la strategia messa a punto è consistita nel chiamare un team di amici ignari del compito che li attendeva, spingere fuori casa il piano da dieci tonnellate, lasciarlo sul marciapiede fingendo di aver preso accordi con una fantomatica chiesa, fischiettare e fare gli gnorri...in pratica, la stessa tecnica utilizzata dai nostri vicini più di un anno prima. A distanza di un mese, passando in incognita per la mia via, ho contemplato, con un misto di nostalgia e vergogna, il piano, forse saltuariamente suonato, a mezzanotte, da qualche romantico spacciatore di crack nel tentativo di sedurre la propria bella.
  • Un nuovo lettore mp3: dopo il trasloco, ho deciso di rimanere per un mese a Poughkeepsie assieme ai miei amici...ho infatti sempre avuto problemi nella fase del distacco! Quando però si divide la stanza con un messicano alla ricerca di una fidanzata e con una nepalese con parenti ed amici con un fuso totalmente opposto al nostro, si deve tenere presente che le nottate saranno costellate da interminabili telefonate via skype a donne disperse per lo stato di New York e ad abitanti di Kathmandu. Ora, se siete dotati di cuffiette la vita è semplice e l'insonnia una minaccia lontana, ma se non siete in grado di tapparvi le orecchie, l'unica via di uscita è il jogging notturno per le vie di Poughkeepsie, con respirazione ritmata dalle necessarie preghiere: di non essere assaliti dai pittbull degli autoctoni, di un venire colpiti da pallottole vaganti, di non finire investiti da un suv guidato da una cheer leader ubriaca fradicia.
  • Ballerine nere: mai possedute in vita mia, diventano un indispensabile gadget quando si trova lavoro in un ristorante a cinque stelle nel paese più fighetto della Dutchess County. Se poi si aggiunge che il ristorante è indiano ma gestito da cingalesi ed offre lavoro anche a messicani, americani e nepalesi, si deve essere pronti a calarsi in un'autentica babele, dove tutti corrono velocissimi portando cibi tanto piccanti da far venire le lacrime agli occhi solo a guardarli. Io e le mie ballerine da 12 dollari ce la siamo spassata e, pur essendo l'ultima ruota del carro, talvolta siamo state pagate più del dovuto per le misteriose potenzialità viste in me dalla proprietaria, che si è tra l'altro impegnata a trovarmi un marito cingalese. E perchè no? Il momento più alto della mia carriera nella ristorazione l'ho comunque toccato quando, pregata dallo chef, ho fatto counseling ad un collega che serviva in stato confusionale clienti radical chic (mai mischiare xanax ed alcool!) ed ho potuto toccare con mano l'utilità di studi nel sociale.
  • Oggettistica per donne gravide: anche se i Maya dicono che il mondo stia andando a scatafascio, aspettatevi che tutti intorno a voi inizino a riprodursi alla velocità della luce. Per non farvi cogliere impreparati, munitevi quindi di ammennicoli da presentare alle famigerate “baby showers”, agghiaccianti feste pre-parto in cui si donano alla panzona di turno oggetti utili per il futuro nato. Dopo circa due ore a Target ed infinite discussioni, io e Francisco abbiamo deciso di focalizzarci sul “pregnant woman concept” e di acquistare cose utili alla madre (una nostra amica turca) più che al bambino. Il pezzo forte del nostro shopping è stato senza dubbio un kit per prevenire le infiammazioni dei capezzoli...se questa non è disperazione!
  • Valeriana: frequentando la comunità afro-americana e quella messicana di Poughkeepsie, la drammaticità in qualche modo tipica delle due culture ha alterato la mia compassata milanesità, facendomi meritare il soprannome di “Drama queen” (grazie Francisco!). Non entrerò nei dettagli delle scene melodrammatiche che mi hanno vista coinvolta, ma basterà dire che Vittorio Sgarbi mi fa una pippa!
  • Venditore di macchine: ad una settimana dalla mia partenza alla volta dell'Italia, non ero ancora riuscita a rifilare a nessuno la mia Sweet Princess che, avendo il cambio manuale, per l'americano medio costituiva uno strumento più difficile da maneggiare di una macchina per laparoscopie. Conscia anche delle mie inesistendi doti da venditrice, ho affidato l'arduo compito ad Howard, un nuovo vicino di casa che, una decina di giorni fa, me l'ha venduta ad un prezzo insperato. Ad onor del vero, va detto che l'acquirente mi ha confessato per telefono di essersi decisa all'acquisto grazie allo pseudo arbre magique che pendeva dal mio specchietto retrovisore, il quale ha decisamente toccato le corde della sua anima: la scritta sul deodorante recitava, infatti, “crazy bitch”...
  • Guaranà nativo: quando si hanno dieci ore di scalo a Stoccolma e si decide di incontrare un cugino metà italiano e metà svedese, in barba al fuso orario ed alla stanchezza da economy class, è indispensabile munirsi di energizzanti di vario tipo. Grazie al cielo, cugino e moglie si sono rivelati essere due simpaticoni amanti della birra e devo confessare di essere molto dispiaciuta che non abbiano passato le selezioni per la versione svedese di MasterChef.
  • Calcetto portatile: tornando da un paese in cui trovano posto aberrazioni quali un calcetto con tre (!!!) portieri per porta, non ci si può certo aspettare di migliorare abilità già prima piuttosto misere. Il confronto con amici italiani fa male all'amor proprio e instilla nel cuore un misto di vergogna e desiderio di rivincita che presto mi porterà ad acquistare un futbolìn (come lo chiamano in latinoamerica) da borsetta.

Sicuramente ci sono molto altri oggetti mirabolanti che, nel corso degli ultimi mesi, ho sentito la necessità di avere con me, ma le liste della spesa, si sa, sono destinate a perdersi nei meandri della borsa, oppure ad essere dimenticate sul tavolo dove le si era appoggiate solo per un secondo.
Tra una settimana parto verso l'ignoto che, detto così, suona molto figo ma che, in realtà, si declina in un atto di impressionante incoscienza e nella più totale ignoranza del dove dormire-mangiare-lavorare-trovare amici...e vabbè, in Canada fa freddo e magari la gente sta più vicina per scaldarsi a vicenda...

venerdì 11 maggio 2012

Poche idee ma confuse

Vivo alla giornata.
Non alla maniera maledetta ed intrigante della beat generation, ma a quella sciatta e disorganizzata di chi fatica ad immaginare il menu del prossimo pasto. Ci sarebbe anche un alone eccitante in tutto questo, se poi non finissi ogni volta, inevitabilmente, ad aprire una scatoletta di ceci che, per pigrizia, non scaldo nemmeno al microonde e che generalmente costituisce il famoso fondo del barile, da me settimanalmente grattato. Infatti, pur intravvedendo la minaccia della fame nera nel vuoto pneumatico di credenza e frigorifero, ogni volta lascio che una deprecabile pigrizia si erga a muro invalicabile tra l'attuale miseria ed una sana gita al supermercato, aperto peraltro ventiquattr'ore su ventiquattro.
La mia totale incapacità di prevedere il futuro è imputabile in parte alle mie penosissime doti programmatorie, a causa delle quali, in anni ed anni di vita accademica, ho coltivato e nutrito la perniciosa abitudine della secchiata dell'ultimo minuto, ed in parte ad un'esagerata indecisione, che mi spinge a soppesare le scelte in maniera ossessivo-compulsiva e ad aggiungere improbabili opzioni a liste già sufficientemente pingui.
Il mio vivere alla giornata si riassume, quindi, in una serie di fobie e complessi schizoidi, aggravati da miopia rispetto al futuro.
Quando non si sa dove andare o che si farà a distanza di un paio di ore, diventa ovviamente arduo rispondere a domande relative alla futura ubicazione geografica.
Brancolo nel buio e, come direbbe mio padre, ho poche idee ma confuse.
Un po' per pigrizia, un bel po' per terrore di abbandonare amici e gatti, un po' per amore degli spazi infiniti, un angolo della mia mente, del quale a dire il vero mi vergogno non poco, sta cercando strategie picaresche per rimanere in terra americana. Ma quell'angolo lì viene presto zittito dalla mia anima anarco-vegana e dalla nostalgia di casa, dove genitori, fratelli e amici (pelosi o meno) mi stanno (forse) aspettando, in una fantasia bacata nella quale le majorette e la banda del paese mi attendono al mio ritorno, che sarà benedetto dal classico sole italiano.
A questo punto della mia allucinazione, però, le fanfare vengono annientate col lanciafiamme dalle demoralizzanti notizie relative alla crisi economica, scenario che contempla amici con sei o sette lauree costretti a sgranocchiare il magro ossicino di una supplenza di qualche settimana o a mendicare un posto sottopagato con trucidi contratti a progetto farlocchi, mentre nelle mie orecchie risuona la voce della Babi che, a mo' di prefica, ripete “La' non tornare, che qui ce sta la miseria e la gente s'ammazza per la disperazione”.
Vedendomi davanti le tre Arpie della fame nera, mi aggrappo con disperazione all'immagine, ormai idealizzata in modo imbarazzante, del vicino Canada, che prende le forme di un ricchissimo eden popolato da angeliche figure alte e bionde, talmente gentili da correre il rischio di sembrare un po' idiote.
Il Canada è un visto facile, seppur breve, ma è anche il dover trovare una casa, un lavoro, nuovi amici e nuove routine. È la vicina Toronto, dove abbondano i locali vegan e i frikkettoni miei simili, ma è anche la lontanissima Vancouver che, con Babi, vagheggiamo di raggiungere a bordo della mia Sweet Princess, nella speranza che non ci abbandoni dopo le prime cento miglia di coast to coast.
Recentemente, due amiche mi hanno fatto la stessa proposta: convivere con loro e la loro prole. Tutto ciò mi porta a pensare che dovrei rivedere l'immagine che ho di me stessa e ripensarmi nei panni del “male bread-winner” o, meglio ancora, del marito un po' ubriacone che reclama il proprio sacrosanto diritto ad una cena cruelty free ed alle camicie stirate.
In fin dei conti, in tutto questo trambusto cerebrale, in tutta questa confusione geografica, lo so benissimo dove sta casa mia: anche se loro non lo sanno, anche se sono lontani e forse andranno ancora più lontano, i miei fratelli e Kamalita sono “my home”. E, certo, anche mamma e papà e la storia infinita del loro giardino stracolmo di piante e della casa che cresce come un fungo.

venerdì 20 aprile 2012

Meccanici in America

Se, giunta al quattordicesimo mese nella terra della patatina fritta, sono ancora in discrete condizioni psicofisiche (vabbè, discrete secondo i parametri locali...) è perché ho sviluppato abilità e conoscenze che mi hanno permesso di passare indenne attraverso la miriade di pericoli ed insidie che minacciano l'esistenza di un immigrato: le risse tra donnone obese alla lavanderia a gettoni, il livello inumano di colesterolo nel sangue, le motorette del Wal Mart, gli spacciatori di crack della porta di fianco, i meccanici locali.
Questi ultimi costituiscono, molto probabilmente, la maggiore minaccia alla mia salute mentale ed all'integrità del mio portafogli e, in una terra dove praticamente ogni cosa attività viene effettuata in macchina e trascinare il sedere sedile-forme per più di due isolati sembra un'impresa impossibile, essi rappresentano una figura mitologica molto vicina ad Hermes, dio dei ladri.
Sei in palese svantaggio nei confronti della genia dei meccanici quando vieni da una città dove macchina è sinonimo di smadonnamento da eco-pass, targhe alterne, lotta all'ultimo sangue per il parcheggio, telecamere ed autovelox ed il tuo bagaglio di conoscenze in campo automobilistico è una ridicola valigetta di cartone, con dentro le basi: l'olio va cambiato ogni tot, l'arbre magique alla vaniglia fa venire il mal di testa e i parcheggi dell'Esselunga sono stati creati per testare il freno a mano..
Se ritorno con la memoria al giorno in cui ho acquistato la mia Sweet Princess (una lussuosissima Plymouth Neon del 2000, mica fregnacce!), mi rivedo, dispersa nel Maine, piccola ed ingobbita nella giacca a vento per frenare la dispersione termica nel mezzo di una maledetta snow storm e mi rendo conto di aver scelto la mia macchina principalmente perché s'intonava col colore dei miei vestiti e perché gli interni erano puliti più della mia camera.
Il primo approccio al mondo dei meccanici è stato celebrato all'insegna del fastidiosissimo cigolio prodotto ad ogni frenata, cigolio che mi ha sempre fatta sentire a disagio allo sportello bancomat drive.thru ed al casello del ponte di Poughkeepsie, quando le persone nell'arco di una decina di metri si devono tappare le orecchie per attenuare il tipico effetto “metropolitana della linea rossa”.
Il primo meccanico consultato, su consiglio di una collega, si trova all'altro lato della strada della mia palestra da losers ed è simpaticissimo, nonché di origine italiana (come l'ottanta per cento degli abitanti dello stato di New York)...peccato che, dopo cinque minuti al volante della mia macchina, mi abbia sparato un preventivo che, a distanza di più di un anno, mi provoca ancora una risata isterica mista a sudori freddi. Di fronte alla tragedia, in preda ad un crollo nervoso e dopo aver inscenato una sorta di dramma casalingo nel quale brandivo, con una mano, il maledetto preventivo e, con l'altra, il mio estratto conto da pezze al sedere, sulla via di Damasco mi è apparso il meccanico palestinese di New Paltz, il quale mi ha cambiato qualcosa che manco sapevo esistesse per circa la metà del prezzo proposto dal primo garage.
Senza accorgermene, stavo attraversando la fase più pericolosa, cioè quella della trappola psicologica, perché, dopo aver proferito un accorato “I love you” al meccanico, nel mio cuore si agitavano ridicoli sentimenti compresi nell'arco che va dalla gratitudine alla speranza per un mondo onesto ed incentrati sul desiderio di accudire la mia macchina come fosse mia figlia, sulla preoccupazione per la famiglia del meccanico in Medio Oriente e sulla smania da collezionista di riparazioni. Tutto questo nocivo groviglio di emozioni, unito alla voce di mio padre che in queste circostanze mi riecheggia sempre nella testa (“controlla la cinghia, che altrimenti puoi prendere la macchina e buttarla nel cesso”), mi ha spinta a supplicare il meccanico di controllarmi la cinghia, col risultato che, essendo of course usurata, questi non solo me ne ha cambiata una, ma addirittura due (e chi lo sapeva che erano una coppia?).
La mente gioca strani scherzi e, dopo qualche settimana di tranquillità, nel bel mezzo della mia luna di miele meccanicistica, dove il meccanico palestinese rappresentava l'archetipo del salvatore, una notte il mio sonno viene disturbato da un sogno molesto: nell'incubo, mentre sto guidando verso Poughkeepsie, una spia si accende improvvisamente sul mio display, provocando tachicardia, ipersudorazione ed improperi bilingui. Il giorno dopo, mentre ancora il sole si fa desiderare e la caffeina inizia lentamente a circolare nelle mie vene, io sto davvero guidando per andare al lavoro e sul display si accende per davvero una fucking spia...quella del motore! Accosto ed inizio il mantra di parolacce, mentre iperventilo e la quantità di ossigeno che arriva al cervello è talmente bassa che inizio ad avere delle visioni nelle quali il mio meccanico palestinese si spara tutti i gironi dell'inferno dantesco, più altri da me inventati al momento, per espiare la colpa di non aver previsto un simile flagello. Mi trascino quindi all'officina, mentre i lucciconi agli occhi fanno sbiadire le linee stradali, e qui scopro che il metodo migliore per risolvere il problema pare sia ingannare il computer della macchina facendogli credere che vada tutto bene, un po' come si farebbe con un anziano zio sul letto di morte, costretto a sorbirsi tutte le descrizioni dell'hotel dove promettono di portarlo in vacanza l'estate seguente. Purtroppo, però, per la Sweet Princess l'inganno è durato meno di una quarantina di miglia e l'unico modo per esorcizzare la comparsa della spia è consistito nell'esborso di ottanta dollari per l'acquisto di un nuovo sensore che non mentisse più sulla presenza di perdite di olio del volante (e chi lo sapeva che pure il volante ha un suo proprio olio?).
A proposito di olio, quello del cambio è un rito al quale mi attengo scrupolosamente, con la superstiziosa convinzione che le virtù apotropaiche dalla cerimonia allontanino davvero il flagello di un break down, anche se, oltre ai trenta dollari canonici, il prezzo da pagare consiste anche nel persistente odore di alcool immancabilmente lasciato nel mio abitacolo dall'unico meccanico americano che lavora nell'officina e nella tradizionale presa per il culo da parte del Palestinese che, ogni singola volta che mi vede, non può fare a meno di chiedermi “li hai fatti i soldi?” o di propormi per beffa di scambiare la mia macchina da due quarti di dollaro con qualche Mustang o similia.
Siccome qui tutti sono ossessionati dai rigori invernali, ed io per prima, in tempi non sospetti mi sono premurata di associare al cambio dell'olio pure quello dell'antigelo ma, inconsapevole del fatto che flushing out e adding fossero due cose ben distinte, non avevo preventivato di spendere circa cento dollari in fluidi per la Sweet Princess. Di fronte al salatissimo conto ho retto il colpo per evitare di essere presa in giro in maniera ancora più pesante, ma una volta tornata a casa ho iniziato ad inveire contro gli dei ostili, salvo poi scoprire che cento dollari per flushing out dell'antigelo (qualsiasi cosa esso significhi) e cambio dell'olio è un prezzo più che popolare.
Siccome io sono una persona tendenzialmente ansiosa e paranoica, qualche settimana fa ho iniziato a sentire delle strane vibrazioni ogniqualvolta toccavo l'acceleratore e ho subito immaginato scenari catastrofici, rafforzati dalle precedenti esperienze avute da Kamalita con la sua esosissima Volvo, per aggiustare la quale ha speso, nel corso dei mesi, qualcosa come millecinquecento dollari, cifra che l'ha portata ad odiare in modo viscerale prima il meccanico che gliel'ha venduta e poi anche la Svezia, terra di fighetti e di macchine che cadono a pezzi una volta raggiunti i centomila miglia.
In realtà, l'amico palestinese mi aveva avvertita che la Sweetie aveva una perdita di olio (sempre olio!) negli ammortizzatori posteriori ma non ho mai avuto i risparmi per prendermi cura della faccenda e ho sviluppato col passare del tempo un inconscio senso di colpa per il mancato accudimento della macchina. Per estirpare una simile onta mi sono recata nella zona più malfamata di Kingston dove Jason, il meccanico che opera sul ciglio della strada di fronte casa sua, potesse visitare la povera Sweetie.. Il verdetto è stato pesantuccio: 450 dollari tra freni anteriori ed ammortizzatori posteriori. Oggi ho quindi nuovamente affrontato il viaggio nei recessi di quest'ansa intestinale di paese e mi sono ritrovata in un film sulle street gang, dove teppistelli con bandane e strani gruppi in cazzeggio sulle verande mi fissavano, increduli del fatto che un mucchietto di ossa sbiadite come me potesse trovare l'ardire o la demenza di camminare su quelle strade come niente fosse.
Dopo aver speso 160 dollari di freni, infilati in mano al Jason in contanti ben arrotolati, a mo' di drug dealing, mi sono pure sentita dare della babbazza dal mio fratello messicano che mi ha assicurato di avere un amico che gli deve qualche favore e che mi può sistemare gli ammortizzatori praticamente gratis.
Insomma, se rinasco prometto di aprire un'officina di riparazioni in Bovisa, dove offrire consulti gratuiti ai poveri immigrati provvisti di macchina. Credo fermamente che questo possa giovare al mio karma.


mercoledì 4 aprile 2012

Blossoms de cerveza

La leggendaria pigrizia del ghetto di Kingston ha ricoperto ogni cosa con la sua patina oleosa e tenace, sicché l'esagerata lentezza con la quale aggiorno il mio blog trova le sue radici non tanto in una mia personale mancanza di zelo, quanto in una causa ambientale, un po' come i tetti d'amianto o il mercurio nelle falde acquifere. Siccome in questo preciso momento il mio fratello messicano acquisito sul suolo ammmericano mi ha scacciata fuori dal suo antro perché non vuole che lo derida nel corso di uno skype-appuntamento con una ragazza albanese, mi trovo rinchiusa nella stanza della futura coinquilina e posso dedicare la prigionia all'aggiornamento delle mie vicende.
A marzo ho decisamente vissuto al di sopra delle mie possibilità finanziarie e probabilmente la prossima volta che mi recherò alla Bank of America in Washington Avenue (quella che, illo tempore, mi spedì cinque debit cards di fila), il benvenuto che mi attenderà sarà caloroso e sincero.
I principali esborsi sono da ricondursi all'assidua frequentazione del ristorante indiano di Kingston, dove l'Eahmad mi dispensa ogni volta “il solito” paratha vegan; alla compulsiva ingestione di cibo messicano presso El Charrito di Poughkeepsie, dove la mamacita giunonica che parla solo spagnolo alla velocità della luce mi infarcisce con la sua “solita” comida (nachos, avocado, insalata, frijoles) e, soprattutto, ai viaggi a Boston e Washington DC, qui chiamata semplicemente DC.
Il week end in Massachusetts è stato risucchiato da un enorme buco nero con centro nel finto Irish pub vicino allo stadio dei Red Sox, dove abbiamo dilapidato i nostri beni e le nostre cellule cerebrali in birre acquose. Quello che ricordo è che siamo partiti un sabato mattina, ovviamente in super ritardo, a bordo della mia Sweet Princess e che, dopo quattro ore di guida, ho fatto il madornale errore di cedere le chiavi della macchina alla Tìca, ovvero Melissa la costarichense. Il debutto al volante l'ha vista passare col rosso al primo semaforo incontrato (era nervosa per via del cambio manuale), per poi annoverare un'imprevedibile e repentina frenata nel mezzo di due corsie ad alta velocità (era indecisa su quale prendere), un senso unico preso in contromano (era distratta dal nostro amico marocchino Hamza, leggerissimamente avvinazzato) e infine un parcheggio sulla pipì di una decina di ubriachi (era stanca di avere a che fare con noi e voleva scendere in fretta). Ora, io non sono mai stata in Costa Rica, ma mi vien da pensare che forse non convenga essere pedoni da quelle parti e che l'aspettativa di vita sia strettamente legata alla solidità del mezzo che si guida.
Siccome la quasi totalità dei pub e dei club di Boston chiude inspiegabilmente alle due di notte, se visitate la città con bevitori incalliti assicuratevi che i vostri amici abbiano fatto scorta in precedenza di birre ed alcolici vari, perché altrimenti vi toccherà rincorrerli a destra e a manca, nel vano tentativo di impedir loro di molestare poveri passanti o altri ubriaconi loro pari. Il ricordo più vivido della nottata consiste, infatti, in Hamza che, incapace di intendere e di volere, continua ad urlare a squarciagola “follow the gay guys!”, esortandoci a seguire una coppia di ragazzi che si stavano recando nell'unico locale aperto a quell'ora: un gay club.
Per girare Boston, la città più europea degli States, dopo una notte brava, vi servirà senz'ombra di dubbio un energy drink e un caffè doppio, ma tutti gli sforzi per tenere le palpebre sollevate verranno ricompensati dalla bellezza della camminata lungo la freedom trail e per le vie del centro. La visita al museo di scienze naturali è consigliata solo a chi ha la rara capacità di non addormentarsi sui sedili del planetarium, mentre una tizia sovrappeso spiega le meraviglie dell'universo ad un'orda molesta di bambini gringos.
Il fine settimana a DC, invece, è stato consumato all'insegna della morbosa passione coreana per il locale Cherry Blossom Festival, un happening che ruota tutto attorno alle migliaia di alberi che, a partire dai primi del '900, il Giappone ha graziosamente donato alla capitale nordamericana in segno d'amicizia e che fioriscono per poco più di una settimana verso la fine di marzo. Il team, tutto al femminile, era costituito da me, dalla coreana Yunkyeong e dalle due bolivianite Andrea (detta anche La Maledetta) ed Elizabeth (meglio nota come Gatubela).
Il viaggio di andata ha previsto una sosta strategica alla Hershey factory, produttrice di ogni tipo di snack cioccolatosi, nessuno dei quali, sfortunatamente, vegan e nessuno fair trade...sicchè la mia anima anarcoanimalista ha dovuto lottare per non arringare le masse ebbre di cioccolato iniquo con un sermone in fantainglese sullo sfruttamento dei paesi produttori del cacao e sull'industria del latte.
Una volta arrivate a DC, superate le classiche peripezie del turista last minute allergico alle prenotazioni, abbiamo lasciato le nostre masserizie in un hotel fighetto scovato in internet dalla Yunkyeong e abbiamo passato le successive tre ore inghiottite dallo Smithsonian Museum of Modern Art, uno dei più strabilianti musei che abbia mai visitato.
La serata è consistita in uno scomposto ingozzarsi di cibo cinese a Chinatown, dopo che la mania coreana di vedere e fotografare TUTTO ci aveva costrette ad un durissimo digiuno durante l'arco dell'intera giornata. Per conciliare il sonno, abbiamo poi optato per un sobrio brindisi in camera a base di liquore coreano alla ciliegia, prima di addormentarci col sottofondo di Que viva!, la versione latina di American idol. Il giorno seguente, la disciplina asiatica ci ha inflitto una levataccia alle ore sei del mattino, per poter sfruttare pienamente la giornata piovosa e fredda Alaska style. Mentre Obama se la spassava, ironia della sorte, in Corea, l'apice della nostra domenica si è raggiunto lungo le quasi due miglia di percorso tra gli alberelli fioriti di rosa (il famoso cherry blossom), dove ogni tre passi Yunkyeong, con sguardo tra il trasognato e l'eroinomane in craving, sospirave “oh my Gooooood”, scattando milioni di fotografie che renderanno sicuramente agevole per gli archeologi del futuro ricostruire non solo il nostro stile di vita, ma persino quanti peli nel naso avevamo in quella particolare circostanza.
Dopo una doverosa capatina al National Air and Space Museum, abbiamo deciso di fare tappa al Pentagono sulla via del ritorno e, grazie al rinomato talento asiatico per la guida, ci siamo infilate nella corsia sbagliata, facendo accorrere in soccorso del popolo americano un paio di amichevoli guardie armate fino ai denti.
Una volta tornate a Poughkeepsie, dopo sei ore di macchina e diversi energy drinks ingeriti, ho appreso la lezione più importante del fine settimana: durante il week end, mai lasciare le chiavi della propria macchina ad un messicano...dopo l'assunzione di litri, ops, galloni e galloni di alcool, potrebbe non ricordarsi di averle prese e nemmeno che la vostra macchina sia parcheggiata proprio di fronte a casa sua...

lunedì 27 febbraio 2012

Peluqueros gringos

Dopo più di un anno, non mi è ancora chiaro il motivo per il quale chiunque si aggiri per la trucida provincia newyorkese debba patire l'imperizia di parrucchieri che, in altri luoghi della terra, sarebbero probabilmente addetti alla raccolta delle foglie secche in autunno.
In tredici mesi, infatti, l'unica persona da me incontrata con un taglio di capelli degno di questo nome è stata...io-me-medesima! E solo grazie al salvifico intervento della biondissima fidanzata di Bas che, in quel dell'Olanda, si occupa di chiome televisive ed affini.
I primi parrucchieri nei quali mi sono imbattuta lavorano nel centro commerciale di Poughkeepsie e sono napoletani, o meglio, madre e padre lo sono, mentre i figli sono italiani quanto la pizza di Domino's e farebbero la loro porca figura al Jersey Shore. L'utilità di avere parrucchieri che parlino il tuo idioma natale si rende, comunque, tangibile quando devi scongiurare il pericolo che sulla tua testa venga riprodotta la stessa frangetta che avevi alle elementari. E siccome sei già contento di non avere una cofana sulla fronte, passi sopra al fatto che il taglio italo-americano ti faccia assomigliare ad un Picasso spurio....anche se ad una settimana di distanza avrai senz'altro le scatole piene di combattere, giorno dopo giorno, contro ciocche di capelli che si autocollocano in posti nei quali non dovrebbero stare.
Siccome dopo i primi tre mesi di permanenza negli States ho già collezionato una solida conoscenza del dialetto napoletano-poughkeepsiano e pure una serie di orripilanti tagli di capelli, decido a questo punto di affidarmi ad altre mani che, nella fattispecie, appartengono alla parrucchiera di fiducia di una mia collega. A tutt'oggi, non mi è ancora chiaro cosa mi abbia spinta ad andare dalla stessa tizia che ha prodotto la chioma fucsia della mia coworker, ma è chiarissimo che i venticinque dollari dati alla Yolanda, parrucchiera dominicana di Kingston, sono stati i soldi più inutilmente spesi nella storia dei tagli di capelli perché, dopo circa due ore di discussione sulla pelle grassa (rigorosamente condotta in spagnolo), nonostante uno sforbiciare attento e concentrato, sul pavimento restavano solo quattro peli ed io me ne uscivo uguale identica a prima, ma con in tasca un portafogli alleggerito ed in mano la business card della Yolanda, che voleva stringere con me e Kamalita una “amistad” internazionale. Ovviamente, la peluquera dominicana non l'ho mai più rivista e, ogni volta che passo davanti al suo negozio (cioè più e più volte al giorno), mi viene spontaneo smadonnare con malas palabras in spagnolo.
Poi finalmente è arrivata Danila, la fidanzata di Bas: bella, bionda, spiritosa, simpatica, con l'unico difetto (l'unico, davvero!) di non sciacquare i piatti adeguatamente, ma forse perché in The Netherlands si mangia con stoviglie insaponate. Bene, la Danila ha dedicato un'ora intera alla scelta del taglio, fatta mostrandomi foto di fighissime modelle olandesi e quasi altrettanto tempo alla creazione post-moderna che ha finalmente reso simmetrica l'asimmetria della mia faccia.
Dopo il ritorno in patria della parrucchiera valchiria, la sorte della mia chioma è stata altalenante, perché l'estratto conto della Bank of America mi ha sempre costretta a recarmi all'economicissimo Kingston Mall, dove il salone di parrucchieri offre asilo a tagliatori di capelli di ogni sorta e genere. La prima volta che mi ci sono avventurata, una ragazzotta cicciottella mi ha “donato”, per soli quindici dollari, un taglio di capelli che avrebbe fatto rabbrividire la Danila ma che io ho trovato dignitoso e che non mi è nemmeno costato ore ed ore delle tipiche, fastidiose domande da salone di bellezza.
Il secondo taglio al mall mi è stato inflitto da un harleysta tabagista sessantenne con i nonni italiani, che mi ha raccontato la sua vita dalla a alla zeta, cioè da quando la sua nonna si rifiutava di insegnargli l'italiano per evitargli di venire insaccato di botte dai poliziotti irlandesi a Brooklyn ai giorni nostri, contrassegnati da una vita da biker arrugginito, condotta in una casetta in legno tutta diroccata, in compagnia del suo cane. Nonostante le iniziali perplessità, dovute anche al forte odore di alcool che emanava dal mio parrucchiere, l'opera dell'italo-americano si è rivelata dignitosa e la chiacchierata più che interessante, soprattutto per la promessa di riesumare un casco per me e di portarmi in giro per l'Hudson Valley a bordo di un'Harley d'epoca. Peccato non aver più incontrato il buon uomo...
La terza volta mi è toccata in sorte una donnona tutta imbellettata e con i capelli bicolore, un po' biondi e un po' rossicci, che si è complimentata per la mia audacia nel voler sfoggiare un taglio corto ed asimmetrico e che mi ha ricoperto la testa di gel ultraresistente, utilizzatissimo anche dalle ditte di landscaping della zona.
Settimana scorsa ho deciso di aver bisogno di una spuntatina e mi sono imbattuta in un'adolescente sovrappeso che, dopo avermi inizialmente mezza tramortita con una parvenza di frangetta, ha finalmente capito il concetto di ciuffo e, in extremis, mi ha liberata dalla reliquia degli anni Ottanta-Novanta che mi stava facendo fiorire in testa.
A chi mi chiede come vedo il futuro della mia chioma, tendo generalmente a rispondere che la mia somma aspirazione sono i monaci buddisti: calvi e con la pelata bella rilucente al sole.
E, infatti, da che ho messo piede quaggiù (o quassù), il mio capello si è via via esageratamente accorciato e credo che il fenomeno sia riconducibile alla materia grigia contenuta nella mia teca cranica: forse prima dovevo riscaldare e proteggere qualche grammo di encefalo che, a seguito di mesi e mesi in terra d'Ammmerica, è stato annichilito da un environment ostile ad ogni forma di vita pensante.

sabato 11 febbraio 2012

Supposte di saggezza

Dopo quasi un anno oltreoceano, mi sembrava il caso di fare una capatina in patria, giusto per ricordarmi com'è fatta una lasagna vegan degna di questo nome e per bere un espresso che non venga servito in una tazzina grande quanto un bidet (oggetto, peraltro, quaggiù sconosciuto ai più).
In seguito a questo ritorno alle origini, mi sono imposta una serie di regole auree da cercare di rispettare ad ogni costo.
La prima di queste consiste nell'evitare come la peste nera tutto ciò che ha a che fare con la compagnia aerea Continental. Il giorno successivo all'acquisto del biglietto di andata, infatti, una “cortese” signorina dal forte accento africano mi ha chiamata dal call center per informarmi che il volo da me acquistato era stato messo in vendita online per errore e, di conseguenza, “tante scuse ma abbiamo solo un comodo aereo in partenza dal New Jersey” con sei (!!!) ore di scalo a Francoforte. Contando che l'aereo era inevitabilmente in ritardo e che ho dovuto prendere ben due autobus per raggiungere l'aeroporto, il mio viaggio della speranza fino ad Orio al Serio è durato all'incirca ventiquattr'ore. Per quanto concerne il ritorno, dico solo che, oltre a soffrire l'ennesimo ritardo, grazie ad un'altra simpatica signorina dello stesso call center, mi è toccato praticare un indesiderato digiuno perché la spocchiosetta mi avevo prenotato il pasto vegan solo per l'andata.
La regola d'oro numero due concerne la cremina per l'herpes: anche se sono anni o secoli che questo fastidioso problema non vi affligge, ricordatevi che, quando meno ne avreste bisogno, disgustosi bubboni purulenti fioriranno sulle vostre labbra e, colti alla sprovvista, dovrete raggiungere all'ultimo minuto una farmacia (grazie al cielo qui tutto è aperto 24 ore su 24), sottraendo preziosissimi minuti alla preparazione, anch'essa last second, della valigia più incasinata della storia. Una postilla alla regola dell'herpes concerne la Tachipirina perché, nelle uniche due settimane all'anno nelle quali vi è concesso vedere parenti ed amici, sarete di sicuro colpiti da un'influenza di dimensioni bibliche con febbre tropicale ed annichilimento dei polmoni. Ricordatevi quindi di portare sempre con voi delle compresse (e sottolineo COMPRESSE) di paracetamolo, perché vostro padre potrebbe avere la brillante intuizione di comprarvi delle supposte di Tachipirina, cimelio dei tempi che furono ed oggetto-feticcio per molti.
Al terzo posto ci metterei l'imperativo categorico della faccia come il..., ovvero la capacità di trasformare la disperazione in una virtuosa assenza di ogni pudore o decenza. In particolare, ho perso la mia dignità “accademica” presentandomi a due esami preparati dall'altra parte del globo terracqueo con la lettura di circa la metà dei testi, effettuata prevalentemente alla Big Bubble Laundromat nel ghetto di Kingston, tra una rissa tra avventori ed una spettegolata con la ragazza del drop off. A riprova del fatto che l'ignoranza premia, ho passato entrambi gli esami, a discapito del fatto che, tutt'oggi, non riesco a ricordare nemmeno il nome degli esami stessi, nonostante li abbia letti circa ottocento volte. Sullo sfondo rimane, comunque, la lacerante domanda alla quale nessuno sa rispondere: perché iscriversi ad un'università lontana anni luce e cercare di collezionare l'ennesimo titolo totalmente inutile al guadagno della pagnotta? Forse i Maya sapranno dirci qualcosa di più su tale dilemma...
La regola numero quattro impone allenamenti almeno settimanali a calcetto, per non collezionare cocenti sconfitte e pessime figure al ritorno in patria. E il fatto che l'unico calcetto incontrato sul suolo ammmericano abbia sei portieri non è una valida scusa per la vergognosa sfilza di insuccessi e relativi improperi da parte del Lemon, da me accumulati in una fredda serata sui Navigli.
In quinta posizione, ricordarsi di preparare finte storie su solide relazioni sentimentali con persone affidabili e con un conto in banca che superi i tre dollari, su gravidanze presenti e future, su progetti grandiosi di mettere la testa a posto, sposarsi, comprare casa, avere un taglio di capelli decente ed indossare vestiti sobri e non ridicoli. Talvolta è imbarazzante dover ammettere di vivere come dei teenagers alla veneranda età di trentatré (trentatré, carajo!) anni, di non sapere dove si sarà ubicati da qui a sei mesi, di non essere in grado di prendersi cura manco di due gatti sottratti ai vicini crackomani, di non saper fare l'orlo ai pantaloni, di sentirsi a casa quando si è al volante di una Plymouth Neon del 2000, color trasù de ciuc, lanciata a velocità da vecchietta tremolante nel nulla della provincia americana.
Infine, bisogna ricordarsi di avere sempre con sé un'abbondante scorta di fazzolettini di carta (meglio in tessuto, anche se poi è un macello non dimenticarseli alla lavanderia a gettoni), perché prima o poi si deve dire “arrivederci” alla mamma e al papà con la gatta Soffy in braccio, a due fratelli nanerottoli accuditi da saggi animaletti pelosi, agli amici che chissà quando si rivedranno ancora.

lunedì 30 gennaio 2012

Banalità da teenager

Gli eventi (e probabilmente anche una carenza di vitamina B12) mi hanno travolta e da tempo immemore non aggiorno questo blog...verguenza!
Mentre combatto con la gatta Fleasa che, a colpi di coda in bocca, tenta di farmi morire soffocata, mi accingo quindi a proporre un agile elenco dei principali accadimenti degli ultimi mesi, di modo che tutti possiate essere rassicurati circa la banalità della mia vita da teenager americana.
  • Crazy pajamas at Wal-Mart: fin dagli albori del nostro insediamento nella terra dello Zio Sam, abbiamo iniziato a vagheggiare un'incursione notturna nel mega supermercato più popolare d'America, vestiti di tutto punto in tenuta pigiamosa.
    Il Wal-Mart è un gigantesco contenitore di cibo ogm e di prodotti made in China di dubbia qualità, dove l'americano medio trascorre una percentuale spaventosamente alta della propria vita, vagando, con occhio vitreo e maniglie dell'amore strabordanti da t-shirt troppo piccole, sui propri piedi o sulle graziose motorette messe a disposizione dal supermercato, tra scaffali stracolmi di junk food,. Ciò che maggiormente impressiona l'immigrato alle prime armi è l'incredibile quantità di casi umani in cui è possibile imbattersi nelle corsie del Wal-Mart e il dress code che regna sovrano in quel posto: se sei ben vestito, mercenari appena tornati dall'Iraq ti si avventeranno contro e ti preleveranno con la forza per gettarti, lacero e contuso, nel parcheggio di fronte, a ricordarti che questa non è la patria di Prada e nemmeno di Dolce e Gabbana. Quindi, baldi e fieri, in una notte di novembre piuttosto freddina, dopo una cena a base di digeribilissimo cibo indiano, ci siamo recati in spedizione al Wal-Mart, vestiti di tutto punto con pigiama e pantofole, sicuri di fare la nostra porca figura sulla scena di Kingston. Senonché, con nostro immenso disappunto, nessuno, e dico nessuno degli avventori presenti ha voltato la propria testa per ammirare la stramba delegazione internazionale del pigiama, composta da due italiane, una nepalese, due americani, una boliviana, un honduregno, una coreana, una costaricana, una giapponese e un marocchino. L'unica persona che ci ha degnati di attenzione è stata la guardia in borghese del supermercato (forse un ex mercenario), che ci ha gentilmente pregati di non fare fotografie all'interno del Wal-Mart.
  • Tequila natalizia: viviamo in paese dove alberi di Natale e lucine colorate fanno bella mostra di sé tutto l'anno, orgogliosamente dimenticati nei giardinetti o sulle verande. Quaggiù ho visto cose che voi umani scampati al Natale a stelle e strisce non potete immaginare nemmeno nei vostri peggiori incubi: cortili saturi di pupazzoni gonfiabili a forma di Frosty-l'omino di neve o di Santa Claus; ghirlande di vischio pacchianamente infiocchettate appese ad ogni porta o ad ogni cosa vagamente rassomigliante ad una porta; nei centri commerciali, imbarazzanti code chilometriche di mamme pronte a schiaffare bambini ululanti in braccio a babbi natali dalla dubbia sobrietà, per il rito della foto con Santa; highways ingorgate da suv con immensi alberi di natale legati sul tetto; famiglie di ogni colore impilate una sull'altra per effettuare acquisti natalizi che verranno pagati a rate, nella migliore tradizione americana.
    Nella nostra f***ing casa accerchiata da spacciatori di crack e venditori di armi, Nata, baluardo dello spirito natalizio, ha prodotto per partenogenesi un tisico alberello plasticoso ed un quadrittico di calze rosse appese con delle puntine alla parete della sala da pranzo. Io e Fagiolo abbiamo fatto spallucce a mo' di menefreghisti Scrooge, mentre è stato davvero difficile spiegare a Kamalita il significato del Natale: basti dire che la mia piccola nepalese è rimasta scioccata dalla vista del primo vecchiardo conciato da Santa Claus, incrociato al centro commerciale. Perché mai un tizio di quell'età, vestito da bischero, si diletta ad approcciare bambini obesi al Kingston Plaza?!?
    Il giorno di Natale è stato degnamente festeggiato con un party dove la comunità sudamericana di Poughkeepsie ha potuto deliziarsi con le prelibatezze che io e Fagiolo (orfani del capo chef Kamalita, incastrata al lavoro) abbiamo sfornato in due giorni di convulsi e stressanti spignattamenti. I ricordi legati alla festa natalizia sono contrassegnati, oltre che dal pessimo cibo, da una quantità mai vista di birra e tequila (ma quanto bevono i messicani?) che ci ha fruttato fior di dollari in termini di lattine e bottiglie portate da Hannaford per il riciclo, dalla nuova pettinatura punk di Fagiolo che, volendo tagliarsi i capelli da solo, ha creato un effetto tipo-alopecia sul cranio (ed è per questo che, in tutte le foto di Natale, indossa un tristo cappellino da baseball), dal rito del regalo-schifezza con scambio di rotoli di carta igienica e mie orride foto impacchettati e da imbarazzanti performance di salsa, merengue e bachata in un club latino di terz'ordine a Poughkeepsie. Laggiù Kamalita ha dato prova di avere nelle proprie vene qualche goccia di sangue sudamericano, mentre io e Fagiolo ci siamo pestati i piedi a vicenda, cercando di attribuire la nostra inettitudine alla tequila. Nel frattempo, Nata si lasciava alle spalle l'Hudson ghiacciato per abbracciare la calda San Francisco.
    Del ritorno a casa ricordo solo di essermi seduta un attimino sul divano, con ancora scarpe e cappotto addosso e di aver fatto finta di ascoltare per un po' un amico marocchino che mi raccontava la propria vita. Poi ho aperto gli occhi di nuovo ed era mattina. Una devastante mattina nelle macerie del post party.
  • Ultimo dell'anno nel perso: metti che un gruppo di persone totalmente sprovviste di ogni capacità organizzativa decida di recarsi a New York per l'ultimo dell'anno ed aggiungi pure un'imbarazzante deficienza comunicativa: otterrai il nostro trentun dicembre nella Grande Mela quando, dopo aver imbastito una battaglia a pallette di carta sul treno da Poughkeepsie, abbiamo iniziato una peregrinazione senza meta per le vie di Manhattan gremite di americane seminude ed americani intenti a sembrare eleganti e sobri. Questo vagare nel perso ci ha portati a festeggiare la mezzanotte in una strada ignota nei pressi di Times Square, per raggiungere la quale sarebbe stato necessario sgomitare con orde di gente incattivita a partire dalle undici del mattino, o prima. Ma la parte più bella della serata è stata l'agghiacciante scoperta del fatto che nessuno di noi volesse davvero andare alla City ma ciascuno di noi pensasse che gli altri lo volessero...in realtà il comune, inconfessato, desiderio consisteva nel classico ultimo dell'anno a colpi di cerveza y tequila nella nostra casa pulciosa. Il degno epilogo della serata si è consumato in un diner di Poughkeepsie, dove ho avuto il piacere di consumare il mio primo piatto di patatine dolci fritte del 2012.
    Hasta il 2012!