venerdì 20 aprile 2012

Meccanici in America

Se, giunta al quattordicesimo mese nella terra della patatina fritta, sono ancora in discrete condizioni psicofisiche (vabbè, discrete secondo i parametri locali...) è perché ho sviluppato abilità e conoscenze che mi hanno permesso di passare indenne attraverso la miriade di pericoli ed insidie che minacciano l'esistenza di un immigrato: le risse tra donnone obese alla lavanderia a gettoni, il livello inumano di colesterolo nel sangue, le motorette del Wal Mart, gli spacciatori di crack della porta di fianco, i meccanici locali.
Questi ultimi costituiscono, molto probabilmente, la maggiore minaccia alla mia salute mentale ed all'integrità del mio portafogli e, in una terra dove praticamente ogni cosa attività viene effettuata in macchina e trascinare il sedere sedile-forme per più di due isolati sembra un'impresa impossibile, essi rappresentano una figura mitologica molto vicina ad Hermes, dio dei ladri.
Sei in palese svantaggio nei confronti della genia dei meccanici quando vieni da una città dove macchina è sinonimo di smadonnamento da eco-pass, targhe alterne, lotta all'ultimo sangue per il parcheggio, telecamere ed autovelox ed il tuo bagaglio di conoscenze in campo automobilistico è una ridicola valigetta di cartone, con dentro le basi: l'olio va cambiato ogni tot, l'arbre magique alla vaniglia fa venire il mal di testa e i parcheggi dell'Esselunga sono stati creati per testare il freno a mano..
Se ritorno con la memoria al giorno in cui ho acquistato la mia Sweet Princess (una lussuosissima Plymouth Neon del 2000, mica fregnacce!), mi rivedo, dispersa nel Maine, piccola ed ingobbita nella giacca a vento per frenare la dispersione termica nel mezzo di una maledetta snow storm e mi rendo conto di aver scelto la mia macchina principalmente perché s'intonava col colore dei miei vestiti e perché gli interni erano puliti più della mia camera.
Il primo approccio al mondo dei meccanici è stato celebrato all'insegna del fastidiosissimo cigolio prodotto ad ogni frenata, cigolio che mi ha sempre fatta sentire a disagio allo sportello bancomat drive.thru ed al casello del ponte di Poughkeepsie, quando le persone nell'arco di una decina di metri si devono tappare le orecchie per attenuare il tipico effetto “metropolitana della linea rossa”.
Il primo meccanico consultato, su consiglio di una collega, si trova all'altro lato della strada della mia palestra da losers ed è simpaticissimo, nonché di origine italiana (come l'ottanta per cento degli abitanti dello stato di New York)...peccato che, dopo cinque minuti al volante della mia macchina, mi abbia sparato un preventivo che, a distanza di più di un anno, mi provoca ancora una risata isterica mista a sudori freddi. Di fronte alla tragedia, in preda ad un crollo nervoso e dopo aver inscenato una sorta di dramma casalingo nel quale brandivo, con una mano, il maledetto preventivo e, con l'altra, il mio estratto conto da pezze al sedere, sulla via di Damasco mi è apparso il meccanico palestinese di New Paltz, il quale mi ha cambiato qualcosa che manco sapevo esistesse per circa la metà del prezzo proposto dal primo garage.
Senza accorgermene, stavo attraversando la fase più pericolosa, cioè quella della trappola psicologica, perché, dopo aver proferito un accorato “I love you” al meccanico, nel mio cuore si agitavano ridicoli sentimenti compresi nell'arco che va dalla gratitudine alla speranza per un mondo onesto ed incentrati sul desiderio di accudire la mia macchina come fosse mia figlia, sulla preoccupazione per la famiglia del meccanico in Medio Oriente e sulla smania da collezionista di riparazioni. Tutto questo nocivo groviglio di emozioni, unito alla voce di mio padre che in queste circostanze mi riecheggia sempre nella testa (“controlla la cinghia, che altrimenti puoi prendere la macchina e buttarla nel cesso”), mi ha spinta a supplicare il meccanico di controllarmi la cinghia, col risultato che, essendo of course usurata, questi non solo me ne ha cambiata una, ma addirittura due (e chi lo sapeva che erano una coppia?).
La mente gioca strani scherzi e, dopo qualche settimana di tranquillità, nel bel mezzo della mia luna di miele meccanicistica, dove il meccanico palestinese rappresentava l'archetipo del salvatore, una notte il mio sonno viene disturbato da un sogno molesto: nell'incubo, mentre sto guidando verso Poughkeepsie, una spia si accende improvvisamente sul mio display, provocando tachicardia, ipersudorazione ed improperi bilingui. Il giorno dopo, mentre ancora il sole si fa desiderare e la caffeina inizia lentamente a circolare nelle mie vene, io sto davvero guidando per andare al lavoro e sul display si accende per davvero una fucking spia...quella del motore! Accosto ed inizio il mantra di parolacce, mentre iperventilo e la quantità di ossigeno che arriva al cervello è talmente bassa che inizio ad avere delle visioni nelle quali il mio meccanico palestinese si spara tutti i gironi dell'inferno dantesco, più altri da me inventati al momento, per espiare la colpa di non aver previsto un simile flagello. Mi trascino quindi all'officina, mentre i lucciconi agli occhi fanno sbiadire le linee stradali, e qui scopro che il metodo migliore per risolvere il problema pare sia ingannare il computer della macchina facendogli credere che vada tutto bene, un po' come si farebbe con un anziano zio sul letto di morte, costretto a sorbirsi tutte le descrizioni dell'hotel dove promettono di portarlo in vacanza l'estate seguente. Purtroppo, però, per la Sweet Princess l'inganno è durato meno di una quarantina di miglia e l'unico modo per esorcizzare la comparsa della spia è consistito nell'esborso di ottanta dollari per l'acquisto di un nuovo sensore che non mentisse più sulla presenza di perdite di olio del volante (e chi lo sapeva che pure il volante ha un suo proprio olio?).
A proposito di olio, quello del cambio è un rito al quale mi attengo scrupolosamente, con la superstiziosa convinzione che le virtù apotropaiche dalla cerimonia allontanino davvero il flagello di un break down, anche se, oltre ai trenta dollari canonici, il prezzo da pagare consiste anche nel persistente odore di alcool immancabilmente lasciato nel mio abitacolo dall'unico meccanico americano che lavora nell'officina e nella tradizionale presa per il culo da parte del Palestinese che, ogni singola volta che mi vede, non può fare a meno di chiedermi “li hai fatti i soldi?” o di propormi per beffa di scambiare la mia macchina da due quarti di dollaro con qualche Mustang o similia.
Siccome qui tutti sono ossessionati dai rigori invernali, ed io per prima, in tempi non sospetti mi sono premurata di associare al cambio dell'olio pure quello dell'antigelo ma, inconsapevole del fatto che flushing out e adding fossero due cose ben distinte, non avevo preventivato di spendere circa cento dollari in fluidi per la Sweet Princess. Di fronte al salatissimo conto ho retto il colpo per evitare di essere presa in giro in maniera ancora più pesante, ma una volta tornata a casa ho iniziato ad inveire contro gli dei ostili, salvo poi scoprire che cento dollari per flushing out dell'antigelo (qualsiasi cosa esso significhi) e cambio dell'olio è un prezzo più che popolare.
Siccome io sono una persona tendenzialmente ansiosa e paranoica, qualche settimana fa ho iniziato a sentire delle strane vibrazioni ogniqualvolta toccavo l'acceleratore e ho subito immaginato scenari catastrofici, rafforzati dalle precedenti esperienze avute da Kamalita con la sua esosissima Volvo, per aggiustare la quale ha speso, nel corso dei mesi, qualcosa come millecinquecento dollari, cifra che l'ha portata ad odiare in modo viscerale prima il meccanico che gliel'ha venduta e poi anche la Svezia, terra di fighetti e di macchine che cadono a pezzi una volta raggiunti i centomila miglia.
In realtà, l'amico palestinese mi aveva avvertita che la Sweetie aveva una perdita di olio (sempre olio!) negli ammortizzatori posteriori ma non ho mai avuto i risparmi per prendermi cura della faccenda e ho sviluppato col passare del tempo un inconscio senso di colpa per il mancato accudimento della macchina. Per estirpare una simile onta mi sono recata nella zona più malfamata di Kingston dove Jason, il meccanico che opera sul ciglio della strada di fronte casa sua, potesse visitare la povera Sweetie.. Il verdetto è stato pesantuccio: 450 dollari tra freni anteriori ed ammortizzatori posteriori. Oggi ho quindi nuovamente affrontato il viaggio nei recessi di quest'ansa intestinale di paese e mi sono ritrovata in un film sulle street gang, dove teppistelli con bandane e strani gruppi in cazzeggio sulle verande mi fissavano, increduli del fatto che un mucchietto di ossa sbiadite come me potesse trovare l'ardire o la demenza di camminare su quelle strade come niente fosse.
Dopo aver speso 160 dollari di freni, infilati in mano al Jason in contanti ben arrotolati, a mo' di drug dealing, mi sono pure sentita dare della babbazza dal mio fratello messicano che mi ha assicurato di avere un amico che gli deve qualche favore e che mi può sistemare gli ammortizzatori praticamente gratis.
Insomma, se rinasco prometto di aprire un'officina di riparazioni in Bovisa, dove offrire consulti gratuiti ai poveri immigrati provvisti di macchina. Credo fermamente che questo possa giovare al mio karma.


mercoledì 4 aprile 2012

Blossoms de cerveza

La leggendaria pigrizia del ghetto di Kingston ha ricoperto ogni cosa con la sua patina oleosa e tenace, sicché l'esagerata lentezza con la quale aggiorno il mio blog trova le sue radici non tanto in una mia personale mancanza di zelo, quanto in una causa ambientale, un po' come i tetti d'amianto o il mercurio nelle falde acquifere. Siccome in questo preciso momento il mio fratello messicano acquisito sul suolo ammmericano mi ha scacciata fuori dal suo antro perché non vuole che lo derida nel corso di uno skype-appuntamento con una ragazza albanese, mi trovo rinchiusa nella stanza della futura coinquilina e posso dedicare la prigionia all'aggiornamento delle mie vicende.
A marzo ho decisamente vissuto al di sopra delle mie possibilità finanziarie e probabilmente la prossima volta che mi recherò alla Bank of America in Washington Avenue (quella che, illo tempore, mi spedì cinque debit cards di fila), il benvenuto che mi attenderà sarà caloroso e sincero.
I principali esborsi sono da ricondursi all'assidua frequentazione del ristorante indiano di Kingston, dove l'Eahmad mi dispensa ogni volta “il solito” paratha vegan; alla compulsiva ingestione di cibo messicano presso El Charrito di Poughkeepsie, dove la mamacita giunonica che parla solo spagnolo alla velocità della luce mi infarcisce con la sua “solita” comida (nachos, avocado, insalata, frijoles) e, soprattutto, ai viaggi a Boston e Washington DC, qui chiamata semplicemente DC.
Il week end in Massachusetts è stato risucchiato da un enorme buco nero con centro nel finto Irish pub vicino allo stadio dei Red Sox, dove abbiamo dilapidato i nostri beni e le nostre cellule cerebrali in birre acquose. Quello che ricordo è che siamo partiti un sabato mattina, ovviamente in super ritardo, a bordo della mia Sweet Princess e che, dopo quattro ore di guida, ho fatto il madornale errore di cedere le chiavi della macchina alla Tìca, ovvero Melissa la costarichense. Il debutto al volante l'ha vista passare col rosso al primo semaforo incontrato (era nervosa per via del cambio manuale), per poi annoverare un'imprevedibile e repentina frenata nel mezzo di due corsie ad alta velocità (era indecisa su quale prendere), un senso unico preso in contromano (era distratta dal nostro amico marocchino Hamza, leggerissimamente avvinazzato) e infine un parcheggio sulla pipì di una decina di ubriachi (era stanca di avere a che fare con noi e voleva scendere in fretta). Ora, io non sono mai stata in Costa Rica, ma mi vien da pensare che forse non convenga essere pedoni da quelle parti e che l'aspettativa di vita sia strettamente legata alla solidità del mezzo che si guida.
Siccome la quasi totalità dei pub e dei club di Boston chiude inspiegabilmente alle due di notte, se visitate la città con bevitori incalliti assicuratevi che i vostri amici abbiano fatto scorta in precedenza di birre ed alcolici vari, perché altrimenti vi toccherà rincorrerli a destra e a manca, nel vano tentativo di impedir loro di molestare poveri passanti o altri ubriaconi loro pari. Il ricordo più vivido della nottata consiste, infatti, in Hamza che, incapace di intendere e di volere, continua ad urlare a squarciagola “follow the gay guys!”, esortandoci a seguire una coppia di ragazzi che si stavano recando nell'unico locale aperto a quell'ora: un gay club.
Per girare Boston, la città più europea degli States, dopo una notte brava, vi servirà senz'ombra di dubbio un energy drink e un caffè doppio, ma tutti gli sforzi per tenere le palpebre sollevate verranno ricompensati dalla bellezza della camminata lungo la freedom trail e per le vie del centro. La visita al museo di scienze naturali è consigliata solo a chi ha la rara capacità di non addormentarsi sui sedili del planetarium, mentre una tizia sovrappeso spiega le meraviglie dell'universo ad un'orda molesta di bambini gringos.
Il fine settimana a DC, invece, è stato consumato all'insegna della morbosa passione coreana per il locale Cherry Blossom Festival, un happening che ruota tutto attorno alle migliaia di alberi che, a partire dai primi del '900, il Giappone ha graziosamente donato alla capitale nordamericana in segno d'amicizia e che fioriscono per poco più di una settimana verso la fine di marzo. Il team, tutto al femminile, era costituito da me, dalla coreana Yunkyeong e dalle due bolivianite Andrea (detta anche La Maledetta) ed Elizabeth (meglio nota come Gatubela).
Il viaggio di andata ha previsto una sosta strategica alla Hershey factory, produttrice di ogni tipo di snack cioccolatosi, nessuno dei quali, sfortunatamente, vegan e nessuno fair trade...sicchè la mia anima anarcoanimalista ha dovuto lottare per non arringare le masse ebbre di cioccolato iniquo con un sermone in fantainglese sullo sfruttamento dei paesi produttori del cacao e sull'industria del latte.
Una volta arrivate a DC, superate le classiche peripezie del turista last minute allergico alle prenotazioni, abbiamo lasciato le nostre masserizie in un hotel fighetto scovato in internet dalla Yunkyeong e abbiamo passato le successive tre ore inghiottite dallo Smithsonian Museum of Modern Art, uno dei più strabilianti musei che abbia mai visitato.
La serata è consistita in uno scomposto ingozzarsi di cibo cinese a Chinatown, dopo che la mania coreana di vedere e fotografare TUTTO ci aveva costrette ad un durissimo digiuno durante l'arco dell'intera giornata. Per conciliare il sonno, abbiamo poi optato per un sobrio brindisi in camera a base di liquore coreano alla ciliegia, prima di addormentarci col sottofondo di Que viva!, la versione latina di American idol. Il giorno seguente, la disciplina asiatica ci ha inflitto una levataccia alle ore sei del mattino, per poter sfruttare pienamente la giornata piovosa e fredda Alaska style. Mentre Obama se la spassava, ironia della sorte, in Corea, l'apice della nostra domenica si è raggiunto lungo le quasi due miglia di percorso tra gli alberelli fioriti di rosa (il famoso cherry blossom), dove ogni tre passi Yunkyeong, con sguardo tra il trasognato e l'eroinomane in craving, sospirave “oh my Gooooood”, scattando milioni di fotografie che renderanno sicuramente agevole per gli archeologi del futuro ricostruire non solo il nostro stile di vita, ma persino quanti peli nel naso avevamo in quella particolare circostanza.
Dopo una doverosa capatina al National Air and Space Museum, abbiamo deciso di fare tappa al Pentagono sulla via del ritorno e, grazie al rinomato talento asiatico per la guida, ci siamo infilate nella corsia sbagliata, facendo accorrere in soccorso del popolo americano un paio di amichevoli guardie armate fino ai denti.
Una volta tornate a Poughkeepsie, dopo sei ore di macchina e diversi energy drinks ingeriti, ho appreso la lezione più importante del fine settimana: durante il week end, mai lasciare le chiavi della propria macchina ad un messicano...dopo l'assunzione di litri, ops, galloni e galloni di alcool, potrebbe non ricordarsi di averle prese e nemmeno che la vostra macchina sia parcheggiata proprio di fronte a casa sua...