lunedì 27 febbraio 2012

Peluqueros gringos

Dopo più di un anno, non mi è ancora chiaro il motivo per il quale chiunque si aggiri per la trucida provincia newyorkese debba patire l'imperizia di parrucchieri che, in altri luoghi della terra, sarebbero probabilmente addetti alla raccolta delle foglie secche in autunno.
In tredici mesi, infatti, l'unica persona da me incontrata con un taglio di capelli degno di questo nome è stata...io-me-medesima! E solo grazie al salvifico intervento della biondissima fidanzata di Bas che, in quel dell'Olanda, si occupa di chiome televisive ed affini.
I primi parrucchieri nei quali mi sono imbattuta lavorano nel centro commerciale di Poughkeepsie e sono napoletani, o meglio, madre e padre lo sono, mentre i figli sono italiani quanto la pizza di Domino's e farebbero la loro porca figura al Jersey Shore. L'utilità di avere parrucchieri che parlino il tuo idioma natale si rende, comunque, tangibile quando devi scongiurare il pericolo che sulla tua testa venga riprodotta la stessa frangetta che avevi alle elementari. E siccome sei già contento di non avere una cofana sulla fronte, passi sopra al fatto che il taglio italo-americano ti faccia assomigliare ad un Picasso spurio....anche se ad una settimana di distanza avrai senz'altro le scatole piene di combattere, giorno dopo giorno, contro ciocche di capelli che si autocollocano in posti nei quali non dovrebbero stare.
Siccome dopo i primi tre mesi di permanenza negli States ho già collezionato una solida conoscenza del dialetto napoletano-poughkeepsiano e pure una serie di orripilanti tagli di capelli, decido a questo punto di affidarmi ad altre mani che, nella fattispecie, appartengono alla parrucchiera di fiducia di una mia collega. A tutt'oggi, non mi è ancora chiaro cosa mi abbia spinta ad andare dalla stessa tizia che ha prodotto la chioma fucsia della mia coworker, ma è chiarissimo che i venticinque dollari dati alla Yolanda, parrucchiera dominicana di Kingston, sono stati i soldi più inutilmente spesi nella storia dei tagli di capelli perché, dopo circa due ore di discussione sulla pelle grassa (rigorosamente condotta in spagnolo), nonostante uno sforbiciare attento e concentrato, sul pavimento restavano solo quattro peli ed io me ne uscivo uguale identica a prima, ma con in tasca un portafogli alleggerito ed in mano la business card della Yolanda, che voleva stringere con me e Kamalita una “amistad” internazionale. Ovviamente, la peluquera dominicana non l'ho mai più rivista e, ogni volta che passo davanti al suo negozio (cioè più e più volte al giorno), mi viene spontaneo smadonnare con malas palabras in spagnolo.
Poi finalmente è arrivata Danila, la fidanzata di Bas: bella, bionda, spiritosa, simpatica, con l'unico difetto (l'unico, davvero!) di non sciacquare i piatti adeguatamente, ma forse perché in The Netherlands si mangia con stoviglie insaponate. Bene, la Danila ha dedicato un'ora intera alla scelta del taglio, fatta mostrandomi foto di fighissime modelle olandesi e quasi altrettanto tempo alla creazione post-moderna che ha finalmente reso simmetrica l'asimmetria della mia faccia.
Dopo il ritorno in patria della parrucchiera valchiria, la sorte della mia chioma è stata altalenante, perché l'estratto conto della Bank of America mi ha sempre costretta a recarmi all'economicissimo Kingston Mall, dove il salone di parrucchieri offre asilo a tagliatori di capelli di ogni sorta e genere. La prima volta che mi ci sono avventurata, una ragazzotta cicciottella mi ha “donato”, per soli quindici dollari, un taglio di capelli che avrebbe fatto rabbrividire la Danila ma che io ho trovato dignitoso e che non mi è nemmeno costato ore ed ore delle tipiche, fastidiose domande da salone di bellezza.
Il secondo taglio al mall mi è stato inflitto da un harleysta tabagista sessantenne con i nonni italiani, che mi ha raccontato la sua vita dalla a alla zeta, cioè da quando la sua nonna si rifiutava di insegnargli l'italiano per evitargli di venire insaccato di botte dai poliziotti irlandesi a Brooklyn ai giorni nostri, contrassegnati da una vita da biker arrugginito, condotta in una casetta in legno tutta diroccata, in compagnia del suo cane. Nonostante le iniziali perplessità, dovute anche al forte odore di alcool che emanava dal mio parrucchiere, l'opera dell'italo-americano si è rivelata dignitosa e la chiacchierata più che interessante, soprattutto per la promessa di riesumare un casco per me e di portarmi in giro per l'Hudson Valley a bordo di un'Harley d'epoca. Peccato non aver più incontrato il buon uomo...
La terza volta mi è toccata in sorte una donnona tutta imbellettata e con i capelli bicolore, un po' biondi e un po' rossicci, che si è complimentata per la mia audacia nel voler sfoggiare un taglio corto ed asimmetrico e che mi ha ricoperto la testa di gel ultraresistente, utilizzatissimo anche dalle ditte di landscaping della zona.
Settimana scorsa ho deciso di aver bisogno di una spuntatina e mi sono imbattuta in un'adolescente sovrappeso che, dopo avermi inizialmente mezza tramortita con una parvenza di frangetta, ha finalmente capito il concetto di ciuffo e, in extremis, mi ha liberata dalla reliquia degli anni Ottanta-Novanta che mi stava facendo fiorire in testa.
A chi mi chiede come vedo il futuro della mia chioma, tendo generalmente a rispondere che la mia somma aspirazione sono i monaci buddisti: calvi e con la pelata bella rilucente al sole.
E, infatti, da che ho messo piede quaggiù (o quassù), il mio capello si è via via esageratamente accorciato e credo che il fenomeno sia riconducibile alla materia grigia contenuta nella mia teca cranica: forse prima dovevo riscaldare e proteggere qualche grammo di encefalo che, a seguito di mesi e mesi in terra d'Ammmerica, è stato annichilito da un environment ostile ad ogni forma di vita pensante.

sabato 11 febbraio 2012

Supposte di saggezza

Dopo quasi un anno oltreoceano, mi sembrava il caso di fare una capatina in patria, giusto per ricordarmi com'è fatta una lasagna vegan degna di questo nome e per bere un espresso che non venga servito in una tazzina grande quanto un bidet (oggetto, peraltro, quaggiù sconosciuto ai più).
In seguito a questo ritorno alle origini, mi sono imposta una serie di regole auree da cercare di rispettare ad ogni costo.
La prima di queste consiste nell'evitare come la peste nera tutto ciò che ha a che fare con la compagnia aerea Continental. Il giorno successivo all'acquisto del biglietto di andata, infatti, una “cortese” signorina dal forte accento africano mi ha chiamata dal call center per informarmi che il volo da me acquistato era stato messo in vendita online per errore e, di conseguenza, “tante scuse ma abbiamo solo un comodo aereo in partenza dal New Jersey” con sei (!!!) ore di scalo a Francoforte. Contando che l'aereo era inevitabilmente in ritardo e che ho dovuto prendere ben due autobus per raggiungere l'aeroporto, il mio viaggio della speranza fino ad Orio al Serio è durato all'incirca ventiquattr'ore. Per quanto concerne il ritorno, dico solo che, oltre a soffrire l'ennesimo ritardo, grazie ad un'altra simpatica signorina dello stesso call center, mi è toccato praticare un indesiderato digiuno perché la spocchiosetta mi avevo prenotato il pasto vegan solo per l'andata.
La regola d'oro numero due concerne la cremina per l'herpes: anche se sono anni o secoli che questo fastidioso problema non vi affligge, ricordatevi che, quando meno ne avreste bisogno, disgustosi bubboni purulenti fioriranno sulle vostre labbra e, colti alla sprovvista, dovrete raggiungere all'ultimo minuto una farmacia (grazie al cielo qui tutto è aperto 24 ore su 24), sottraendo preziosissimi minuti alla preparazione, anch'essa last second, della valigia più incasinata della storia. Una postilla alla regola dell'herpes concerne la Tachipirina perché, nelle uniche due settimane all'anno nelle quali vi è concesso vedere parenti ed amici, sarete di sicuro colpiti da un'influenza di dimensioni bibliche con febbre tropicale ed annichilimento dei polmoni. Ricordatevi quindi di portare sempre con voi delle compresse (e sottolineo COMPRESSE) di paracetamolo, perché vostro padre potrebbe avere la brillante intuizione di comprarvi delle supposte di Tachipirina, cimelio dei tempi che furono ed oggetto-feticcio per molti.
Al terzo posto ci metterei l'imperativo categorico della faccia come il..., ovvero la capacità di trasformare la disperazione in una virtuosa assenza di ogni pudore o decenza. In particolare, ho perso la mia dignità “accademica” presentandomi a due esami preparati dall'altra parte del globo terracqueo con la lettura di circa la metà dei testi, effettuata prevalentemente alla Big Bubble Laundromat nel ghetto di Kingston, tra una rissa tra avventori ed una spettegolata con la ragazza del drop off. A riprova del fatto che l'ignoranza premia, ho passato entrambi gli esami, a discapito del fatto che, tutt'oggi, non riesco a ricordare nemmeno il nome degli esami stessi, nonostante li abbia letti circa ottocento volte. Sullo sfondo rimane, comunque, la lacerante domanda alla quale nessuno sa rispondere: perché iscriversi ad un'università lontana anni luce e cercare di collezionare l'ennesimo titolo totalmente inutile al guadagno della pagnotta? Forse i Maya sapranno dirci qualcosa di più su tale dilemma...
La regola numero quattro impone allenamenti almeno settimanali a calcetto, per non collezionare cocenti sconfitte e pessime figure al ritorno in patria. E il fatto che l'unico calcetto incontrato sul suolo ammmericano abbia sei portieri non è una valida scusa per la vergognosa sfilza di insuccessi e relativi improperi da parte del Lemon, da me accumulati in una fredda serata sui Navigli.
In quinta posizione, ricordarsi di preparare finte storie su solide relazioni sentimentali con persone affidabili e con un conto in banca che superi i tre dollari, su gravidanze presenti e future, su progetti grandiosi di mettere la testa a posto, sposarsi, comprare casa, avere un taglio di capelli decente ed indossare vestiti sobri e non ridicoli. Talvolta è imbarazzante dover ammettere di vivere come dei teenagers alla veneranda età di trentatré (trentatré, carajo!) anni, di non sapere dove si sarà ubicati da qui a sei mesi, di non essere in grado di prendersi cura manco di due gatti sottratti ai vicini crackomani, di non saper fare l'orlo ai pantaloni, di sentirsi a casa quando si è al volante di una Plymouth Neon del 2000, color trasù de ciuc, lanciata a velocità da vecchietta tremolante nel nulla della provincia americana.
Infine, bisogna ricordarsi di avere sempre con sé un'abbondante scorta di fazzolettini di carta (meglio in tessuto, anche se poi è un macello non dimenticarseli alla lavanderia a gettoni), perché prima o poi si deve dire “arrivederci” alla mamma e al papà con la gatta Soffy in braccio, a due fratelli nanerottoli accuditi da saggi animaletti pelosi, agli amici che chissà quando si rivedranno ancora.