domenica 31 luglio 2011

Fantozzi d'oltreoceano

Ero già pronta, canottiera bianca e frittata vegan di cipolle alla mano, a gustarmi il mio giorno libero all'insegna del più bieco e gretto fancazzismo, magari con una bella gara di rutto libero con i miei fucking roommates, da disputarsi da un piano all'altro (ognuno di noi rigorosamente disteso nel proprio letto, in un tripudio di ozio e torpore)...quando ecco il ragionier Filini americano chiamare e distruggere i nostri migliori progetti per il day off.
Il pic nic aziendale pendeva sulle nostre teste, pronto a caderci addosso da un momento all'altro, nonostante i nostri strenui tentativi di ignorarlo. E alla fine, ovviamente, ci è cascato addosso a peso morto, annichilendo i sorrisi beoti sulle nostre belle faccette straniere.
Il pic nic aziendale, infatti, è qualcosa che, quaggiù, va preso sul serio, dannatamente sul serio.
Dopo una ridicola serie di telefonate tra capi, tutor e colleghi vari, eccoci quindi schizzare giù dai nostri cari lettini alle ore sei-punto-trenta del mattino, con il classico occhio trigliato della privazione di sonno e le pieghe del cuscino ancora stampate in faccia. Eccoci poi smadonnare nei nostri idiomi natii e cercare di ingurgitare ciò che tradizionalmente assimiliamo per colazione secondo i nostri costumi nazionali: io caffè bollente e super zuccherato, Kamalita cereali a secco, Bas tre tonnellate di Nutella su una minuscola fettina di pane. Ecco me e Kamalita cercare di arrancare a fatica sulla gigantesca jeep di Bas, mentre il suddetto dutch roomate ci incita in malo modo a muoverci perché, ovviamente, siamo in ritardo.
Una volta raggiunto il punto di ritrovo, veniamo stipati in un furgoncino puzzolente dove, come al solito, siamo i più pallidi della compagnia e dove, come al solito, veniamo sfottuti per il nostro accento esotico.
Dopo quasi due ore di viaggio, finalmente raggiungiamo il punto x: un parco dove l'americano medio può grigliare qualsiasi essere vivente popoli la terra della libertà (opossum, bisonti, marmottine, cervi, immigrati irregolari), nuotare senza cuffia spargendo capelli biondicci nell'acqua superclorata, affittare una sorta di pedalò che, essendo noi nel paese più pigro del globo, è ovviamente a motore, oppure inseguire qualche giovincella sprovveduta, farla a pezzi e nasconderla nel frigorifero portatile...del resto, questa è pur sempre la nazione con la più elevata densità di serial killers.
Il pic nic aziendale è qualcosa in cui non vorresti mai imbatterti e che non augureresti mai nemmeno al tuo peggior nemico, nemmeno a quell'amabile individuo che mi ha gibollato la macchina in un parcheggio di Poughkeepsie. Persone esageratamente sovrappeso sudano sul barbecue, mentre gruppetti di colleghi sono impegnati in orridi giochi organizzati dal team pic nic, attività alle quali prendono parte unicamente per motivi veniali: in palio ci sono delle carte di credito prepagate da 25 dollari. Appuro con disappunto che gli spiedini con le verdure sono crudi, mentre, sebbene gigantesche parti di animale arrostiscano ovunque, la massa dei colleghi si lamenta della penuria di carne: ma che si aspettavano, un intero branco di mammuth alla griglia?
Il momento più toccante della giornata si raggiunge quando vengono distribuite le pergamene di ringraziamento ed encomio per managers e semplici dipendenti. Mentre siamo intenti a preparare il nostro miglior sorriso ed un abbozzo di discorso da snocciolare al momento della nostra premiazione, assistiamo al corteo di colleghi e capi che, tra gli applausi generali, si recano a ritirare il papello. Siccome siamo dei losers e ce l'abbiamo pure stampato in faccia, io, Bas e Kamalita siamo gli unici a non ricevere manco una pacca sulla spalla, nemmeno una penna con il logo dell'agency, nemmanco un post it con sopra scritto “thank you” e magari i nomi sbagliati.
Dal momento che non c'è nemmeno una goccia di alcol nella quale annegare il nostro immenso dispiacere e la vergogna per non avere ottenuto la famigerata pergamena, ognuno di noi affronta il dolore secondo la propria indole: Kamalita con una telefonata fiume al fidanzato in Texas, Bas partecipando ad un trucido giochino aziendale con le mie colleghe tettone, io mangiando quintalate di patatine attingendo contemporaneamente da due pacchetti diversi.
Durante il viaggio di ritorno, tutti i nostri colleghi contemplano la propria bella pergamena, Kamalita parla ancora al telefono sparando parole alla velocità della luce, io elaboro in silenzio il lutto per la fine dei pacchetti di patatine, mentre Bas guida il furgoncino aziendale come se fosse nel bel mezzo di un film di Indiana Jones.
La giornata si conclude con eventi emblematici della nostra essenza da losers: mentre torniamo verso Kingston sulla jeep, Bas ha la geniale idea di fermarsi lungo la strada per imbottigliare una specie di acqua miracolosa che si dice sgorghi direttamente dalle sorgenti sotterranee, ma che si presenta come del liquido non tanto pulito scaturente da orridi tubi di plastica. Una volta imbottigliata l'acqua santa, i miracoli iniziano a pioverci addosso, perché i freni della macchina si sputtanano improvvisamente quanto inspiegabilmente, obbligandoci a guidare fino a casa sgommando col freno a mano in concomitanza di semafori e stop, fino al meccanico sotto casa, che per soli 305 dollari aggiusterà il jeeppone.
Infine, ci tocca assistere all'ennesimo concerto fuffa a New Paltz, tenuto da uno sbarbatello locale col capello ribelle, che termina a tradimento mentre mi allontano tre minuti a procacciarmi della caffeina nel vicino Starbucks. E pensare che io detesto Starbucks.


giovedì 21 luglio 2011

Mai far cadere la bandiera!

Seduta sulla veranda di una casa un po' fatiscente, nella parte peggiore di una delle peggiori vie di Kingston, Genova mi sembra lontana, quasi l'avessi vista in un sogno.
Eppure, a dieci anni di distanza, mi pare che il tempo sia meno pesante di quanto dovrebbe, perché davvero, se chiudo gli occhi, rivedo, vividi e per nulla sbiaditi, le centinaia di fermi immagine di quella lunghissima giornata genovese.
Scatto n°1: l'alba. Sono io che arranco, con ancora il cuscino stampato in faccia, verso la fermata del pullman che mi porterà a Milano, perché vivo ancora in provincia di Como. Indosso un'orrida maglietta della Onyx, per la quale il Bado mi sbeffeggia ancora a distanza di una decade...a mia discolpa, posso dire che, come al solito, avevo dimenticato di fare il bucato e non c'era nient'altro di pulito.
Scatto n°2: il Biasoli che mi guarda con la faccia pallida pallida. Siamo in viaggio sul treno Milano-Genova. Fa caldo e si va lenti. Con la testa fuori dal finestrino, cerchiamo di capire dove siamo.
Si scherza e si inveisce contro le ferrovie italiane, ma tutti, in realtà, si ha una fottuta paura dello scenario da guerriglia urbana che ci aspetta. Veniamo in pace, mi dico, quindi siamo tranquilli.
Ma perché non ho portato l'elmetto che il giorno prima qualche amico voleva rifilarmi?
Scatto n°3: la folla. Arrivati a Genova, una folla immensa, colorata, chiassosa sta invadendo i vicoli della città. Noi siamo felici di essere arrivati e il Biasoli mi pare meno pallido. La gente sorride e noi sorridiamo di rimando, mentre dai balconi anziani pensionati salutano e gettano acqua per rinfrescare i manifestanti nel caldo torrido dell'estate genovese.
Scatto n°4: la bandiera per terra. Ci rimproverano perché la bandiera non si fa mai cadere, anche se stai scappando a gambe levate, anche se le mani ti tremano dalla paura e negli occhi hai solo la disperata ricerca della via di fuga migliore. Ma perché scappiamo? Ricordo polizia ovunque, gente che grida, gente che corre, gente che cade ed una signora con la testa piena di sangue: a quanto pare, i manganelli se ne fregano delle casalinghe sessantenni.
Noi, per paura di una carica, abbiamo iniziato a correre e da allora so perfettamente come si sente un branco di zebre o gazzelle quando un predatore irrompe nelle ampie distese della savana. Vengo in pace, io, ma forse non interessa quaggiù. La bandiera l'abbiamo fatta cadere perché ci ostacola la fuga, ma la prossima volta la terremo più alta, di modo che i predatori sappiano bene chi siamo e che, come dicono quaggiù, non siamo chickenshit, cioè dei codardi.
Scatto n°5: i black block. Genova è blindata, nessuno può introdurre veicoli di nessun tipo, ma ecco spuntare un furgoncino dei famigerati black block. Chi li ha fatti passare? Quello che sta succedendo è chiaro e cristallino: la folla isola i violenti, ma loro hanno accesso al cuore della manifestazione. Io vengo in pace e non voglio che le mie ragioni vengano lordate dai loro sanpietrini e dai loro distintivi ben nascosti nei portafogli.
Scatto n°6: elicotteri sopra, mare a destra, montagne con cecchini a sinistra, asfalto bollente sotto ai piedi. Niente vie di fuga. Qualche giorno fa, ho letto che un amico, a distanza di anni, ogni volta che sente un elicottero volare basso inizia a percepire la paura salirgli dalle punta delle dita ed arrivare dritta al petto. Del resto, per mesi ho sobbalzato alla vista di un poliziotto e, se potevo, cambiavo strada. La mano che abbiamo armato per proteggerci è la stessa mano che ci ha massacrati a Genova.
Scatto n°7: ancora lo scompartimento di un treno. Si torna a casa! Abbiamo la nostra bandiera, non le abbiamo prese, abbiamo cantato, ballato e gridato che la gente vuole farsi sentire, che non si può calpestare i diritti dei più deboli nel silenzio generale, che questo globo accidentato e disperso nell'universo non può restare per sempre in balia di un manipolo di prepotenti. Siamo felici.
Scatto n°8: l'autoradio. Torniamo in macchina dalla stazione centrale di Milano e alla radio raccontano quello che sta succedendo alla scuola Diaz. Mi viene da piangere.
Ci hanno lasciati tornare a casa, ci hanno fatto svuotare le strade e le piazze dei nostri colori per poter agire indisturbati, perché non ci fossero occhi indiscreti che li vedessero ridipingere col sangue le pareti della Diaz, né orecchie che sentissero i lamenti delle persone rinchiuse a Bolzaneto.
Un immenso senso di impotenza, di ingiustizia, di rabbia invade l'abitacolo della macchina.
Mia madre mi chiama per assicurarsi che io non sia laggiù, nell'inferno di Genova. In questo stesso momento, quante altre madri staranno chiamando, invano, cellulari dispersi tra cocci di vetro e chiazze di sangue?
Il giorno dopo, nessuno parla davanti alle immagini delle persone torturate, massacrate. E io penso: quei poliziotti che hanno spaccato teste ed ossa di persone inermi, cosa avranno mai raccontato alla famiglia, al ritorno dal lavoro?
A distanza di dieci anni i sentimenti non sono cambiati e, se ripenso alla casalinga manganellata, mi vengono ancora i lucciconi agli occhi. Ma ho fatto progressi, perché da allora corro più veloce, non ho mai più fatto cadere una bandiera e, nonostante quell'orrore e quella violenza, il mio vessillo è sempre dipinto con i colori della pace.

sabato 16 luglio 2011

Perché pagare la Time Warner Cable

La vita in provincia riluce di brio e vivacità. Specialmente di sera.
La misura di quanto ce la si spassi a due ore dalla Grande Mela è data dall'inaspettato e direi quasi imbarazzante successo riscosso dai fuochi d'artificio e dalla (fake) Italian festa.
La sera del fireworks festival qui a Kingston sembrava di essere ad un concerto dei Take That negli anni 90: c'era gente urlante ovunque e trovare parcheggio vicino casa è stato assai più complesso che nel centro di Milano. Le persone che si potevano incrociare durante l'evento non erano affatto comuni, perché la cittadina trasudava individui mai visti nemmeno al Wal Mart e probabilmente usciti per l'occasione dalle proprie nicchie ecologiche sotterranee, belli impomatati e vestiti come per la messa della domenica, tanto sgargianti e rari che avrebbero lasciato basito persino il più saggio dei saggi antropologi capitato per caso a Kingston.
Con l'esperienza abbiamo infatti imparato che i fuochi d'artificio fungono da richiamo per l'americano della provincia che, munito di seggiolina pieghevole, accorre con incomprensibile entusiasmo, muovendo grandi quantità di adipe e sgomitando per avere un posto sul lungofiume, molto prima che il crepuscolo sia calato sul Rondout Creek.
L'agglomerato umano che ti si para davanti per l'occasione ti insegna che l'americano provinciale non è solo il bravo impiegato IBM con moglie e figli biondi a seguito e la stars and stripes appesa fuori casa: i fireworks uniscono tutta la variegata fauna che popola l'Ulster County, mostrandoci gli unici tre punk acneici della contea, seduti di fianco ad un'obesissima signora di colore che nasconde il chihuahua nel generoso décolleté; una madre teenager che insegue il pargolo (tamarro già in fasce) su delle zeppe da danzatrice di lap dance, urlando a squarciagola; cinquantenni tutti tatuati che ingurgitano quantità senza senso di ali di pollo fritte, annaffiandole con orrida birra annacquata, perché – attenzione! - solo durante la festa del paese e i fuochi d'artificio è consentito bere al di fuori dei bar, esibendo con compiacimento lattine e bicchieri, senza bisogno di dover nascondere la sostanza incriminata in sacchetti di carta, dei quali, comunque, tutti conoscono il contenuto.
I fuochi del festival, in realtà, facevano abbastanza pietà, nonostante il buon fuocaiolo abbia tentato di tenere alta la tensione sparandone uno ogni dodici minuti, per circa un'oretta.
L'unico pregio dell'esibizione è consistito nel gigantismo, nel pleonasmo pirotecnico, nella pacchiana opulenza di sbrilluccichii e colori, perché qui in America ogni cosa dev'essere oversize, XXL, iper e, più grande ed appariscente è, meglio è...non importa se il contenuto latiti...
Alla fine del festival, l'americano della provincia si ritira mestamente nella propria dimora, portandosi appresso la famigliola più o meno tatuata e più o meno lap dancer, ed intasando con un traffico mai visto ogni strada di Kingston, anche la più remota e negletta.
Noi, altrettanto mestamente, abbiamo fatto ritorno nel nostro ghetto, sperando, almeno per questa sera, di non assistere a nessuna rissa tra vicini e di non ritrovare nessun preservativo usato sulla nostra tettoia.
Per quanto concerne la (fake) Italian Festa a New Paltz, posso solo dire che il saggio antropologo avrebbe faticato parecchio a trovare anche un minimo briciolo di italianità laggiù, dato che, a parte me e La Babi, le cosa più italiana era una statua di Sant'Antonio made in China e delle sfogliatelle transgeniche, ripiene di una sconosciuta sostanza rosea e gelatinosa.
Il principale problema della provincia è, a mio avviso, il fatto che chiunque tu incontri, giallo, nero, bianco, rosso o marroncino, si vanti di essere italiano, perché nel proprio albero genealogico annovera un antenato nato nel Bel Paese e poco importa se costui sia deceduto un paio di secoli fa, se non si conosca nemmeno mezzo vocabolo di italiano, se l'unica pasta conosciuta sia quella che vendono in lattina da Stop and Shop o se il tatuaggio che si sfoggia vicino all'ombelico riporti una frase sgrammaticata in italiano: l'importante è sentirsi pronti a prendere parte a Jersey Shore da protagonisti!
Siccome l'americano della provincia vuole darsi un tono internazionale, restando comunque ben ancorato alle proprie radici, di fianco a pseudo-calzoni ripieni di pseudo-mozzarella e ad Italian ice variopinto (che non è granita, bensì ghiaccio tritato irrorato con sciroppo chimico) venivano prodotti a quintalate hot dogs e french fries, mentre in sottofondo una band composta da musicisti ottuagenari e da una casalinga del Kentucky come lead vocalist inondava l'area della festa con musica country, sul tema “ti ho amata tanto e ancora ti amo, sebbene tu sia fuggita con un altro cowboy”. L'apice della serata si è raggiunto quando il repertorio country è stato contaminato con quello dei Beach Boys ed è partito un trenino di studenti giapponesi ubriachi marci, che ha messo per un attimo in ombra la coppia di vecchini impegnati in un fox trot riadattato in chiave country.
Da queste poche righe, il saggio antropologo non può che trarre una sola conclusione: la tv via cavo ha salvato generazioni e generazioni di non autoctoni dal supplizio della vita notturna in provincia. Ed è per questo che ogni mese paghiamo senza batter ciglio i 114 dollari di Time Warner Cable, che ci permettono di poter sopravvivere alla movimentata vita notturna all'ombra della City.


venerdì 8 luglio 2011

Goodbye Summer...

Quaranta minuti di guida nel bosco, con cento occhi attenti ad individuare cervi kamikaze, chipmunks schizofrenici, scoiattoli crackomani, ed arrivo nella mia personale oasi di pace qui negli States. Non c'è posto che io ami di più quaggiù e, anche se ieri notte ho dormito due ore, anche se la giornata al lavoro è stata impegnativa, anche se prima ho dovuto viaggiare in lungo ed in largo per Kingston nel tentativo di recapitare a tale Reyna Chavez delle scarpe da cinquanta dollari che i gentili impiegati UPS hanno per sbaglio lanciato sulla nostra veranda, insomma, anche se oggi cado a pezzi, mi trascino gioiosamente al Woodstock Farm Animal Sanctuary sulle pregiate ruote della mia Sweet Princess. Questo posto, che è una grande fattoria immersa nella valle dell'Hudson, dà rifugio ad una moltitudine di animali comunemente destinati al macello.
Generalmente, seguo un preciso rituale: entro dal vialetto non asfaltato facendo attenzione a non investire i gatti sordi; parcheggio e prego che non ci sia il pitbull antipatico di uno dei volontari; saluto in italiano Mayla, la cagnetta body guard di una dipendente; porgo i miei omaggi all'accogliente folla dei tacchini accarezzando le loro testine calde e gommosette; grido un sonoro “good morning” ai maiali intenti a fare il bagno nel fango; cerco la capretta Erika per lanciarle uno sguardo d'intesa e poi entro nella casetta di legno al centro della fattoria.
Qui incontro dei bipedi vegani solitamente intenti a sistemare le scarpette al galletto Flipper o a fasciare la zampa malmessa a qualche tacchino e vado a salutare la pecora Summer, che riposa in un piccolo recinto vicino alla porta.
Summer è arrivata al sanctuary circa quattro anni fa con due sorelline, quando erano ancora delle cucciole, riscattate da una condizione di abbandono e degrado che probabilmente è meglio non commentare. Dopo anni di bagordi a base di paglia fresca e corse nei prati, ad aprile, purtroppo, Summer ha iniziato ad avere problemi deambulatori che si pensava fossero dovuti ad un parassita tipico dei cervi. Per permettere a questo essere morbido e gentile di poter scorrazzare da una capo all'altro del grande recinto degli ovini, è stato quindi costruito un miracoloso aggeggio, a metà tra il girello e la sedia a rotelle, sulla quale l'ho vista muoversi allegra e curiosa assieme alle altre pecore.
Anche oggi mi è venuto spontaneo andare a salutarla nella sua dependance, darle un bacino e porgerle la ciotola dell'acqua ma, al suo posto, ho trovato una strana coppia di conigli incredibilmente pelosi e dotati di orecchie particolarmente lunghe.
Subito ho capito cos'era successo. La diagnosi definitiva, arrivata poche settimane fa, non lasciava scampo a Summer, destinata ad una progressiva paralisi. Pietosamente le è stato concesso di evitare una dolorosa agonia, mentre la sua ipertecnologica carrozzina fa ancora bella mostra di sé nel fienile.
La successiva ora al rifugio l'ho passata spalando cacca di capra, cercando di evitare di essere incornata per l'ennesima volta dai due capretti più nanerottoli e bellicosi, rincorrendo la capra gigante evasa in un mio momento di distrazione e versando lacrime sulla paglia sporca.
È infatti incredibile la sensazione di vuoto che mi ha procurato la vista di quell'angolino spoglio della sua presenza, come se Summer avesse dovuto rimanere lì per sempre, assieme al galletto spennacchiato che le faceva compagnia ogni tanto. E anche adesso che riguardo il video dei sui zampettamenti bionici, cerco di nascondere le lacrimuccie alla gatta dei vicini, che al momento staziona sul mio letto occupandone circa i tre quarti.
La maggior parte della gente trova patetico questo dispendio di fluidi organici per un animale che, quando va bene, diventa un bel maglione o, se va peggio, un buon brodino.
Talvolta, d'altra parte, io trovo patetico il dispendio di vocali e consonanti che la maggior parte della gente si ostina a proferire in materia. E sono io in difetto, perché non mi riesce facile immedesimarmi in chi pensa alla mucca Kayli, autoliberatasi da un macello in Pennsylvania (http://www.woodstocksanctuary.org/2011/06/a-pardon-for-kayli-the-cow-2/), come ad una bistecca o alla tacchinella Ophelia come al proprio pranzo del Thanksgiving.
E se, in fin dei conti, la stragrande maggioranza dei vegani e vegetariani che conosco fa finta di dimenticarsi di essere stato carnivoro per un lungo tratto della propria vita, io cerco di ricordarmi come fosse mangiare il petto di pollo senza collegare il cibo nel piatto all'essere unico e desideroso di vivere dal quale proveniva. Ma non ci riesco più perché, se ricordo perfettamente il giorno in cui ho capito che non avrei mai più potuto mangiare carne in vita mia, non saprei dire come mi sentissi o che tipo persona fossi prima
Ora, di sicuro, mi sento in pace, perché se guardo un agnello so che non avrà nulla da temere da me e se allungo la mano verso Alphonso il tacchino, è certamente per una carezza. Spero che anche i due capretti nanerottoli che solitamente mi incornano riescano prima o poi a capire che non costituisco una minaccia e che, se è vero che “rubo” la loro cacca con forcone e pala, va anche riconosciuto che porto in dono dei mega cuboni di ottima paglia italiana!

martedì 5 luglio 2011

I lillà non li ho mica visti...

Carla Boni e Gino Latilla sono il principale motivo che mi ha spinta ad attraversare tutto lo stato di New York a bordo di una Dodge rossa con alettone tamarro: sono infatti decadi che mi rode questa smania di sapere come sia 'sta casetta in Canadà, i fiori di lillà e gli altri orpelli barocchi che probabilmente sono stati col tempo aggiunti ad abbellire la suddetta casetta.
Nel viaggio di andata, con il sagace trucchetto della finta gentilezza, ho convinto la Louise (io ero Thelma) a schiacciare una pennichella mentre io ero alla guida...inutile dire che il vero scopo fosse quello di sciacquarmi orecchie e cervello dalla musica discotecara e riportare ossigeno ai miei padiglioni auricolari con un mix di Linkin Park (per sorpassare i camion della Coca Cola), Evanescence (perché il gotico fa sempre bene) e Cranberries (perché comunque la musica la facciamo meglio noi europei). Peccato che, in tempo zero, l'ansia da prestazione dovuta al cambio automatico mi abbia fatto clamorosamente imboccare l'uscita sbagliata, cosa che farebbe rabbrividire anche il camionista più compassato e che potrebbe portare lo sprovveduto pilota ed i suoi familiari a morire sulle spiagge della California, mentre erano in viaggio verso il Colorado. Circa trenta miglia di errori più tardi, però, sfrecciavo gagliarda verso l'Ontario, con un occhio alla strada e dieci alle macchine della polizia.
Se il saggio antropologo decidesse di valutare un popolo dalle guardie doganali delle quali si dota, direbbe che il canadese medio è un tizio abbronzato di mezz'età che non si preoccupa di aver creato una coda chilometrica solo per il gusto di raccontarci quanto gli sia piaciuta l'Italia, mentre invece l'uomo comune statunitense è un giovinastro palestrato che rivolta inutilmente come calzini sporchi i poveri turisti in uscita dal Canada, facendogliela pagare cara per la loro targa del Maine.
Il saggio antropologo potrebbe anche utilizzare gli usi e costumi dei policemen per analizzare le inclinazioni della popolazione: in America nessuno rispetta i limiti di velocità, ma davvero pochi prendono la multa (anzi, il ticket, come se servisse ad andare da qualche parte), a dispetto di tutta la scenografia megalomanica e muscolare dei poliziotti e sceriffi vari; in Canada le macchine della polizia non si vedono quasi e gli agenti, quando si palesano, sono gentili fotomodelli con maniere raffinate. Peccato che poi, zitti zitti, infliggano senza pietà multe salate a turisti con cataratta che non hanno visto qualche microscopico cartello di divieto di sosta...e il risultato è che ci dobbiamo ricordare di pagare trenta dollari canadesi alle forze dell'ordine torontiane per aver parcheggiato la Dodge davanti all'ostello cinese.
Toronto è strana: nessuno l'ha avvisata che sarebbe stato meglio dotarsi di un piano regolatore; nessuno le ha detto che non si possono chiedere due dollari a botta per due striminzite linee metropolitane ed un deposito di 250 per usare le biciclettine municipali; nessuno l'ha avvista che l'eroina non ce la si inietta più per le strade, perché al massimo oggi la si fuma.
Eppure Toronto è uno di quei posti dove vivrei, perché è tremendamente europea, perché è piena zeppa di freak, perché pullula di bar e ristoranti vegan, perché nessuno ti insacca di botte se sei omosessuale, giallo, nero o se assomigli a Fabri Fibra, perché a Little Italy puoi ordinare un espresso vero (anche se noi ci siamo persi a Chinatown molto prima di raggiungere il cuore della parte italiana), perché, anche se la radio locale nella mia lingua natia è orripilante ed il nostro consolato è aperto solo tre ore al giorno, è sempre meglio che vedere il Tricolore tatuato sul sedere cellulitico di una ninfetta americana pseudo-Jersey Shore.
Ma nemmeno il Canada è immune dai tamarri dal momento che, più ci si avvicina al confine con gli Stati Uniti, più si tocca con mano il sostanziale aumento del numero di maranza che si possono incontrare. L'apice si raggiunge alle Niagara Falls, dove un consesso di menti bacate ha imbrattato tutta l'area circostante alle cascate con uno strato di cemento, ricoperto da uno strato di casino/sale gioco/musei delle cere/castelli dell'orrore/ristoranti di ogni genere/fetidi negozi di souvenir made in China/minigolf con dinosauri, ricoperto a sua volta da uno strato di gente probabilmente vomitata dalle peggiori discoteche dei propri paesi. Ma le cascate sono comunque imperdibili e vale la pena tollerare i tamarri per poterle ammirare...ho addirittura visto un nutrito gruppo di famiglie Amish fronteggiare la massa umana dei disco-turisti pur di ammirare la bellezza delle falls!
Il viaggio in terra canadese è staro reso ancora più denso di significato dalla presenza di Nektarios e Athanassios, due amici greci della Nata che si sono dilettati a perfezionare la loro pronuncia della parola “scoiattolo” e che mi hanno insegnato come dare dello stupito con gesto e relativo insulto ellenico a chi mi sorpassa in macchina quando non dovrebbe.
Il ritorno in quel di (fucking) Kingston è stato contrassegnato dalla posa plastica della Nata al volante che, con un piede fuori dal finestrino e l'altro sull'acceleratore, era la miglior pubblicità del cambio automatico, dalla gara ad indovinare peculiarità e tratti somatici degli autisti delle macchine che si superavano (qui in America la scelta dell'automobile è legata alla variante razziale, ma quest'argomento merita un post a parte) e dalla riedizione del “coffe&pee”, cifra stilistica del mio viaggio dal Maine allo stato di New York, questa volta nella versione “iced tea&pee”. Nessuno, infatti, conosce meglio di me i bagni nelle aree di servizio di questo stato!