martedì 3 settembre 2013

Dispacci dai ghiacci - Una gioiosa coabitazione


Paese tranquillo, il Canada. La porta di casa non viene mai chiusa a chiave, sul pullmann nessuno si guarda attorno con sospetto, ancorando il portafogli alla tasca dei pantaloni, nessuno intravede nell'altro un potenziale pluriomicida o un ladro incallito. Nessuno, tranne l'italiano trapiantato a nord che, nonostante nulla qui gli sia mai stato sottratto o nessuna aggressione sia mai stata perpetrata ai suoi danni, si ostina tuttavia a scorgere pericoli e incipienti crimini in ogni dove.
E questo, in effetti, è il mio caso. La diffidenza tipica di chi viaggia sulla 90 a Milano o di chi ha subito il furto di decine di biciclette permea il mio essere talmente profondamente che nemmeno in questa pacifica landa ghiacciata riesco a prendere un mezzo di trasporto senza controllare lo zaino o a fantasticare di possibili serial killers in agguato tutte le volte che il mio Barbaro Canadese va a letto senza chiudere la porta di casa (il che avviene praticamente ogni sera).
Sebbene sia stata più e più volte sbeffeggiata per questa mia propensione alla previsione di crimini mai avvenuti, le mie doti da Cassandra hanno, finalmente e una volta per tutte, messo a tacere i candidi canadesi e il loro innocente sguardo sul mondo.
Il tutto ha inizio ai primi di agosto, quando una nuova coinquilina fa la sua inaspettata entrata in scena a casa del Larry, occupando la stanza che fu dell'ultracattolico quebecchiano Martin, partito alla volta del petrolifero nord (sì, esiste qualcosa più a nord di qui!). Io, con influenze lombrosiane delle quali mi vergogno profondamente, inizio a dubitare della nuova arrivata sin dalla stretta di mano.
La prima sera, un po' indispettita dalla mia cronica diffidenza, me ne vado a dormire con la gatta Maggie, sperando che l'indomani mi porti in dono un po' di fiducia nel genere umano. Ma ecco che, nel cuore della notte, la coinquilina, da allora ribattezzata “Creepy Roommate”, mi catapulta nel mezzo di uno a caso degli episodi di Paranormal Activity, iniziando a ripetere, a mo' di rito satanico, “I know who you are and you know who I am” ad un immaginario personaggio presente nella sua stanza. Dopo essermi barricata in camera con la Maggie, ho constatato come il mio ateismo non sia d'aiuto quando acqua santa e rosario sarebbero la risposta più adeguata.
Questa è la prima delle poche notti trascorse a casa con lei.
La seconda sera di coabitazione si apre con la Roommate che, sempre più ubriaca, inizia a raccontarmi terrificanti storie di vita vissuta incentrati su ripetuti abusi domestici, un presunto incesto e un po' di sana prostituzione, fino a che la ciuca vira sul violento e lei inizia a buttare all'aria tutto ciò che si trova sul tavolo dove sto cenando, per infine accusarmi di averle rubato le calze. Ovviamente, la serata si conclude con un ennesimo episodio di soliloquio alla Paranormal Activity e conseguente clausura mia e della Maggie.
La notte numero tre parte bene perchè, nonostante io sia terrificata per l'assenza del Larry (a Vancouver per lavoro), la Roommate pare sobria e, dopo avermi narrato le sue vicissitudini in materia di salute, mi dice che sono una bella persona e si mette tranquilla tranquilla a guardare la televisione in sala.
Io decido che, dopo tutto, sono proprio una stronza a essere così prevenuta nei suoi confronti e mi vergogno persino di aver messo in salvo a casa del Mandon l'anello con rubino di mia nonna (unica cosa di valore che io possieda). Decido che da domani sarò una persona migliore e inizierò a costruire una sana fiducia verso gli altri e, per dare maggior vigore al mio proposito, io e la Maggie concordiamo di non chiudere a chiave la porta della camera.
Senonchè, in seguito all'emanazione del mio personale manifesto di amichevolezza verso il genere umano, perdo circa dieci anni di vita per lo spavento di venire svegliata nel cuore della notte dalla Creepy Roommate che, come se niente fosse, all'una e passa mi avvisa dell'arrivo del suo ciclo e mi fa cortese richiesta di soldi per andare a comprare i tampax ad un inesistente negozio aperto ventiquattr'ore su ventiquattro. Quando le porgo i miei di tampax lei, con fare tra lo scocciato e il deluso, si allontana e, poco dopo, in seguito ad una serie di chiamate da un ignoto personaggio maschile, se ne esce per mete ignote. Io, ricordando i racconti etilici di prostituzione, decido che la prossima volta che mi viene un attacco di fiducia è meglio se conto fino a cento e comunque mi chiudo in camera con la gatta, nel caso torni con qualche cliente.
Nonostante i miei tentativi di messa in guardia del Larry, la sua canadesità gli consente solo di ammettere che, sì, in effetti la Roomie è un po' stranella ma che no, non è assolutamente pericolosa. Nel mentre, inizia la lenta scomparsa dei miei capi di abbigliamento...
Il quarto episodio della saga mi vede tornare a casa dopo una cena da un collega (Larry sempre a Vancouver) e trovare la porta del bagno chiusa a chiave e la coinquilina presumibilmente intenta a farsi una doccia. Reputandomi fortunata per la mancata interazione, mi lavo i denti in cucina e me ne vado a letto sigillandomi in caso di un'improvvisa proiezione domestica di Shining. Un'ora più tardi, la Roommate sta ancora facendosi la doccia e, siccome ho rinvenuto una strana droga, inizio a sospettare che sia deceduta dopo aver battuto la testa sulla vasca, in preda a fumi psicotropici. Visualizzando scenari da CSI Edmonton, esco dal mio bunker e vado a bussare alla porta del bagno...dopo dieci minuti di disperati colpi alla porta e di urla, finalmente una flebile voce mi risponde che lei è “fine”. Va bene, niente squadra scientifica per stasera, me ne torno a letto. Peccato che, dopo un'altra ora, la tizia sia ancora sotto la doccia! Aspettandomi rivoli di sangue sgorgare da sotto la porta, mi avvio a portare avanti l'ennesima sessione di colpi&urla che, questa volta, dopo altri interminabili minuti, porta alla fuoriuscita dal bagno della Creepy Roommate, totalmente strafatta ma viva. La mattina successiva, vedendomi far colazione con due occhiaie tante, mi chiede se stia rincasando in quel momento. Beata amnesia della notte precedente!
Il giorno successivo, decido preventivamente di passare la notte dal Mandon, dove sto comunque per trasferirmi e, a rendere ancora più saggia la mia decisione, arriva una telefonata del Larry che, sulla strada del ritorno da Vancouver, mi sconsiglia di tornare a casa perchè la Creepy lo ha chiamato millantando la presenza di un intruso.
E qui entra in scena per davvero CSI Edmonton.
La Roomie che, sotto effetto di alcolici e droghe, è in preda a pesanti allucinazioni che la portano a credere ci sia qualcuno in casa, al ritorno del Larry pare comunque essersi calmata e, nonostante i due abbiano una discussione rispetto ad un prestito di soldi, il buon Larry, credendo risolta la cosa, se ne va beato a guardare la televisione sulla sua poltroncina reclinabile, con tanto di copertina da pensionato addosso. Peccato che, poco dopo, alle sue spalle spunti all'improvviso la Creepy Roommate che, armata di coltello, come ogni buon killer mira subito alla carotide, per poi colpire il gomito e la mano del pover'uomo. Ma siccome il Larry è nato con la camicia, la Roomie lo colpisce in maniera non letale e gli lascia pure l'occasione di scappare in cerca di aiuto. A questo punto, mentre il Larry, sanguinante e barcollante, si rifugia dai vicini, la star del remake di Shining riesce ad impossessarsi delle chiavi del pick-up e con quello a darsi alla fuga. Peccato che il sistema antifurto satellitare permetta alla polizia di rintracciarla nella vicina località di Leduc, dove viene fermata e portata in arresto.
Attualmente si trova reclusa nel carcere di Edmonton, in attesa del processo per tentato omicidio e furto di macchina.
Il Larry, acciaccato e pieno di punti, ha comunque una nuova, avvincente storia da raccontare ai nipotini.
Io ho recentemente traslocato dal Mandon e, pur avendo rintracciato alcuni capi di abbigliamento rubati dalla Roommate, sto ancora elaborando il lutto per la scomparsa del mio bellissimo vestito nuovo di pacca e della mia giacca viola.
Morale della storia: l'italiano trapiantato a nord, grazie alla sua congenita diffidenza, ha più probabilità di sopravvivenza del canadese medio, ammesso che non venga colto da ipotermia.

domenica 11 agosto 2013

Dispacci dai ghiacci - Occhio alla melanzana!


Il mio corpo si esprime in maniera litica, nel senso che trova una certa soddisfazione nel produrre sassi, sassolini e pietruzze.
Mia madre ancora conserva, a mo' di lavoretto delle elementari, i calcoli che mi vennero rimossi dalla cistifellea e credo li mostri con orgoglio a parenti ed amici in visita. Ricordo ancora il risveglio dall'operazione: avevo un freddo becco ed ero assolutamente convinta di non essere in grado di respirare. Ci volle l'intervento del mio amico Roby a suon di (metaforiche) mazzate per farmi calmare e realizzare che, se avevo fiato per smadonnare, allora probabilmente non stavo morendo soffocata. Il buon Roby, infatti, con smancerie di ogni tipo ed una faccia come il sedere, era riuscito a farsi ammettere alla sala operatoria, guadagnandosi l'ambitissimo privilegio di essere l'unico tra i miei amici ad aver ammirato le mie frattaglie. Credo che dovrei donargli uno dei miei calcoli, magari incastonato in un sobrio ciondolo a mo' di reliquia, di modo che lo possa appendere allo specchietto retrovisore della sua macchina e, in caso di conversazione languente, possa tirare fuori dalla manica l'asso della mia colecistectomia e delle mie scene isteriche post risveglio.
Qualche giorno fa, il mio ossuto corpicino ha deciso di darsi alla produzione di altri pregiati monili, questa volta in ossalato di calcio, volgarmente noti come calcoli renali.
Dopo una cena a base di untissime melanzane fritte, il mio Barbaro Canadese ha iniziato ad avvertire un certo fastidio alle vie biliari (anche lui produce pietre, a quanto pare) e mi ha prontamente accusata di averlo avvelenato con la subdola arma del colesterolo. Mentre ero intenta a negare l'evidenza, sono stata a mia volta colta da dolori via via più insopportabili, che apparentemente andavano a confermare la tesi della melanzana terrorista. Dopo qualche ora di stoica negazione del dolore, mi sono ritrovata in macchina a smadonnare contro semafori rossi e lavori stradali che rallentavano la mia corsa al pronto soccorso.
Una volta giunti all'ospedale, ho potuto constatare come i canadesi siano persone discrete e dignitose anche nel dolore: tutti i pazienti erano compostamente seduti in un educato silenzio e attendevano placidamente di essere chiamati per il proprio turno. Una donna che perdeva ettolitri di sangue da un dito tagliato sedeva con serafico sorriso giusto di fianco ad un educato giovanotto con un tremendo sfogo pruriginoso, mentre una senzatetto con qualche tipo di dolorosa infezione tentava di appisolarsi senza disturbare i vicini di poltroncina. Nella sala d'attesa regnava un religioso silenzio...se si escludono i miei ululati di dolore, misti ad imprecazioni multi-lingue. Io, infatti, ero l'unico esemplare della mia razza, devota al dramma, alla vocalità, al chiasso...una scassamaroni, insomma.
Ogni due per tre inviavo il mio fidanzato a molestare qualche infermiera perorando la causa dei miei lancinanti dolori a schiena ed addome. Nel mentre, pur soffrendo come non mai in vita mia, la mia scaltra mente italica cercava di architettare piani per essere visitata in tempi brevi: dalla simulazione di un drammatico svenimento alla presa in ostaggio di uno dei pazienti (quello apparentemente meno contagioso) e così via sino all'opzione “corri oltre le barricate” che mi vedeva protagonista di una corsa alla Bolt oltre lo sbarramento dell'accettazione.
Quando finalmente sono stata ammessa nell'eden del pronto soccorso, credo che gli altri utenti abbiamo brindato alla calma ritrovata...ma sempre in modo sobrio e contenuto, chiaramente.
Mentre gentilissime infermiere mi porgevano immacolate copertine appositamente riscaldate per il paziente freddoloso, io continuavo con la mia litania di “oh-my God-oh mio dio” e “perchè è capitato a me?!?” ed anche “sto morendo!!!” ma, soprattutto, “mai più melanzane fritte!”.
Questo calvario è andato avanti per circa dodici ore, durante le quali l'immane sofferenza è stata a tratti placata da ingenti dosi di morfina che, pur lasciando inalterata la percezione del dolore, pervade tutto il tuo corpo con una sorta di menefreghismo chimico che ti porta ad un atteggiamento del tipo “sì, soffro tremendamente, ma chi se ne frega?” e ti dona il sorriso ebete del crackomane.
La lezione appresa da questa dolorosa esperienza è quindi la seguente: se vuoi che il tuo Barbaro Canadese ti tema, ulula come una iena inferocita ed impreca in lingue a lui sconosciute.

domenica 7 luglio 2013

Dispacci dai ghiacci - Un'estate in Canada


Orde di teenagers pienotti infestano downtown mezzi nudi, gruppi di sedicenni con appendice di passeggino popolano i centri commerciali sfoggiando shorts ed infradito che neanche a Copacabana, signore sovrappeso stritolate da improbabili prendisole mostrano sbiaditi tatuaggi, memoria di quando la tonicità della loro pelle faceva sembrare davvero un cuore quello che invece ora ricorda un sedere flaccido disegnato da un tatuatore con troppo whiskey all'acero nel sangue.
Questa è l'estate ad Edmonton.
Qui, nella giornata più calda della storia (30°C scarsi!), si sono registrati più blackouts che in tempo di guerra per via dei troppi condizionatori accesi, mentre per le strade si incontravano canadesi paonazzi con preoccupanti crisi respiratorie.
Io, avendo finalmente deciso di indossare audacemente pantaloncini ed infradito, sono stata giustamente travolta da una tempesta tipo Independence Day, con tanto di alberi che mi cadevano al suolo davanti, folgorati dal vento impazzito, e tutta la polvere della terra gettata a velocità supersonica nei miei poveri occhi.
Siccome l'altra volta che avevo osato fare sfoggio di infradito la città era stata messa in subbuglio da un tornado warning, ho deciso, per il bene di tutti, di evitare di esporre inappropriate nudità ai quattro venti canadesi.
Del resto, qui nessuno parla di estate, perchè, com'è noto, ad Edmonton esistono solo due stagioni: quella delle nevi e quella delle costruzioni, detta anche “del fango”. Infatti, se per circa otto mesi all'anno la città è ricoperta da un impenetrabile strato di neve e ghiaccio, per i restanti quattro si assiste ad uno sbocciare di cantieri di vario tipo e dimensione. Si costruiscono strade, case (rigorosamente tutte uguali), centri commerciali, ponti, garage e pure piscine all'aperto. La conoscenza della rete dei trasporti locali maturata in sei mesi di sofferenza invernale viene resa inutile da brutali quanto imprevedibili mutazioni nel percorso di tutte le linee di pullman, mentre il pedone, in passato osteggiato dai cumuli di neve sugli sparuti marciapiedi, rischia l'estinzione a causa dei pericoli insiti in tombini aperti, oggetti in caduta libera dalle impalcature e mezzi pesanti impegnati nella sistematica asfaltazione di tutta Edmonton.
Qui, infatti, si è nemici del verde. Gli unici colori graditi agli autoctoni sono il grigio-asfalto, il bianco-neve, il nero-petrolio e il blu-arancione-bianco degli Oilers, la locale squadra di hockey...che, a dire il vero, ha fatto piuttosto schifo nell'ultima stagione.
Credo che si tratti di genetica, perchè anche il mio Canadian Barbarian si sta dedicando allo smantellamento di ogni residuo di verde nel proprio giardino. Dopo aver brutalmente asportato ogni minimo filo d'erba e speso migliaia di dollari in bulldozer rimuovi-fango, ora passa ogni momento libero a piastrellare il cortile, seguendo un delirante progetto che prevede una fontana probabilmente a forma di fungo, un buco per i falò notturni, una vasca da bagno riscaldata (!!!) ed altri ornamenti barocchi che dovrebbero saturare uno spazio grande più o meno come un monolocale a Milano. Io, per suo grande disappunto, mi limito a scuotere la testa da dietro la finestra, mangiando avanzi di cena cinese e insegnando parole italiane di disappunto a Phelony e Gesù, amici canini.
Per il resto, l'estate, ops la construction season, è fatta di tramonti ad ore incredibili (le 11 di notte!), nativi che barbequeggiano nei parchi, festivals di ogni tipo tutti accomunati da uno sfoggio di nudità tatuate, gente che si fa canne alle fermate del pullman, taglio dell'erba ossessivo-compulsivo ad ogni ora del giorno e della notte (tanto c'è sempre luce!) e muta del pelo dei conigli locali che da bianchi che erano sono ora diventati marroncini per mimetizzarsi con la polvere sulle strade.
Io, un po' per superstizione e un po' per sopravvivenza, ho deciso di seguire la semplice filosofia dei signori Sikh che, barba lunghissima e fare distinto, si riuniscono ogni giorno presso le panchinette del Mill Woods Town Centre e che indossano lo stesso tipo di indumenti (turbante, tunica e gilet) ogni giorno dell'anno. Infatti, visti i tornados, le thunder storms, la grandine di tenore biblico e compagnia bella, perchè mai dovrei archiviare la mia giacca a vento, compagna di mille avventure su strade o troppo innevate o troppo impolverate per dei patetici sandaletti caraibici?

giovedì 21 febbraio 2013

Dispacci dai ghiacci - Ma che freddo fa???

Il festival di Sanremo è acqua passata e pure i Grammy Awards. Qui non se li è filati nessuno. E per forza: siamo troppo impegnati a spalare la neve e a tentare di far sciogliere il ghiaccio davanti alla porta di casa, per evitare di contrarre le tipiche malattie invernali, come fratture scomposte, ecchimosi al coccige o perdita dei sensi post caduta con conseguente assideramento.
Ogni volta che cammino su ciò che rimane dei marciapiedi edmontoniani, penso con sollievo ai benefits che il Castorama nordamericano mi garantisce: se mi lusso una spalla all'incrocio tra la sessantaseima strada e la ventitreesima avenue, infatti, pagherò solo il 20% delle spese mediche. Olè!
Dopo quasi quattro mesi di permanenza in terra canadese posso affermare con fierezza che il freddo mi fa una pippa e posso portare alto il vessillo di almeno tre categorie di persone: quelle che hanno solo un semplice strato di pelle striminzita a coprire le proprie ossa, quelle che non si nutrono di sostanze animali e quelle che, avendo passato i primi giorni della porpria esistenza in incubatrice, hanno sempre avuto un po' di inconscia nostalgia per quel calduccio artificiale. E quindi no, le mie ossa non si stanno frantumando per il freddo, no, non è necessario nessun substrato proveniente da altri animali per sopravvivere degnamente e sì, i sacchettini per il caldo istantaneo possono talvolta essere un succedaneo dell'incubatrice.
Per descrivere la mia progressiva canadesizzazione, basti dire che, in quei rarissimi giorni in cui la temperatura si aggira sui -5°C, io sudo per la caldazza e lascio deliberatamente a casa guanti, cappello e sciarpa, mentre nella tempesta di neve più molesta io passeggio allegramente gustandomi uno smoothie vegan ghiacciato. Sono talmente canadese che a -28°C (-43 quelli percepiti!), gli unici eventi “ostili” registrati dal mio bizzarro organismo sono stati il congelamento dei peli del naso e del mio respiro sugli occhiali. Ma tanto, se cado a causa della cecita, mi copre Castorama!
La mia progressiva acclimatazione all'habitat siberiano può essere confermata da quel barbaro* canadese che da qualche mese fa coppia con me...mentre al primo appuntamento ha dovuto recuperarmi, ibernata e quasi comatosa, nell'atrio di una TD Bank a soli -10°C, ora sono io che lo incito ad andare a pattinare su piste di ghiaccio all'aperto a temperature impossibili. Sono confidente nelle mie possibilità e so che prestissimo riuscirò ad emularlo e ad uscire di casa senza nemmeno abbottonarmi la giacca o addirittura in maniche di camicia. Per ora ho pascolato i suoi cani in piagiana nel mezzo di un blizzard (o bufera di nve) senza battere ciglio.
E se gli autoctoni, ostinandosi a credere nell'arrivo della primavera, iniziano a fare incetta di sementi e terriccio per l'orticello casalingo, io mi accingo a comprare una bicicletta con la quale sfrecciare per strade la cui segnaletica è totalmente nascosta da una solida patina marroncina di materiale ghiacciato. E intanto continua a nevicare, nevicare, nevicare, nevicare...perciò mi fa strano leggere di amici e parenti in Italia che si lamentano per una leggera spolverata biancastra e addirittura mi sembrano principianti i miei amici nello stato di New York quando mi dipingono scenari apocalittici per descrivere tre giorni di neve. Qui, ah bbbelli, la neve manco sappiamo più dove mettercela! Ne abbiamo talmente tanta che le corsie delle strade misurano circa la metà della dimensione originaria, perchè nel corso dei mesi gli spalaneve ne hanno accumulata così tanta ai lati delle carreggiate che ci si potrebbero organizzare gare di snowboard cittadino. E siccome in Canada non sanno proprio che fare per evadere dalla noia del luuuungo inverno, i bambini locali si dilettano ad organizzare atroci scherzi ai danni dei compagni più sprovveduti, scherzi che in gran parte del mondo conosciuto non sarebbe possibile effettuare. E mi riferisco al famoso trucco del “lecca il cancello”, dove un ingenuo ragazzetto viene convinto a leccare cancellate di metallo a -20°C con la drammatica conseguenza di una lingua attaccata al cancello dei vicini. Questo è ciò che si può definire un'infanzia infelice ed è la chiara origine del dilagare di una vera e propria piaga sociale come il whiskey all'acero, un'aberrazione che dà la stessa sensazione che darebbe bere dei pancake liquefatti con troppo zucchero. Credo che la mancanza di luce solare porti ad abnormi effetti collaterali...
Intanto, l'hockey ha ripreso il suo normale corso, per la gioia di Larry che ha passato i primi tre mesi di convivenza smadonnando contro quegli avidi giocatori dei ghiacci che, per ottenre un aumento su paghe già stratosferiche, erano entrati in sciopero sottraendo ai canadesi l'unico vero divertimento, a parte lo sci ed il curling. Ora purtroppo mi tocca spararmi una partita a sera e lo scenario è più o meno sempre il medesimo: Larry che urla e strepita, Larry che mangia cibi untissimi per via dello stress da partita, larry che si addormenta, gli Oilers che perdono, Larry che si risveglia, apprende della disfatta e inizia ad inveire. Il tutto mentre i gatti osservano con malcelata aria di superiorità.
In questo preciso momento pare che gli Oiles siano in vantaggio sui Minnesota Wild e guai a fiatare, ché il Larry non va disturbato.
Domani è previsto sole e -10°C...quasi quasi lascio a casa guanti e sciarpetta!

giovedì 3 gennaio 2013

Dispacci dai ghiacci - Customer focused o muerte!

Lavorare per una compagnia americana, sebbene dispersa nei più gelidi ghiacci canadesi, equivale a gettarsi, senza paracadute, nel mezzo di un b-movie con vecchie cheerleaders sovrappeso ed ex giocatori di football...ma con due fondamentali varianti: l'hockey al posto del football ed una marea di colleghi pachistani.
Non farò il nome dell'azienda, ma sappiate che si tratta di una sorta di castorama nordamericano, anzi del paradiso dell'home improvement, l'eden del do it yourself, l'eldorado del bricolage, ecc. ecc. ecc.
E che ci faccio io in un posto del genere? Semplice: percepisco un buon stipendio per osservare allibita, part time, come si lavora su Marte. Insomma, ricerca sociale sotto copertura.
La sensazione di essere sbarcata su un altro pianeta ce l'ho in effetti avuta da subito, da quando ci hanno caldamente incoraggiati a non indossare nulla di arancione (il colore del nemico, l'altro leader del settore!) e ci hanno sottoposti ad un training dove si veniva messi in guardia circa i turpi sotterfugi escogitati dai sindacati per carpire soldi e fiducia di ignari lavoratori.
La mattina, quando arrivo al pelo col mio fake espresso Tim Horton's che viene regolarmente sbeffeggiato da tutti, i miei colleghi si stanno già riunendo in cerchio per definire gli obiettivi commercali della giornata, cantare l'inno aziendale ed unire i propri pugni chiusi al grido di “customer focused!”. Il tutto avviene mentre simulo un attacco di incontinenza in bagno, una strabiliante inettitudine nell'allacciarmi le scarpe aziendali oppure una curiosa lentezza del sistema di registrazione delle ore...tutto pur di non dovermi sottoporre ad un simle annichilimento della mia già moribonda dignità.
La routine lavorativa marziana viene scandita da una solida disorganizzazione mascherata da zelo ed iperattività, che porta tutti a dare estrema importanza (o a fingere di darla) a cose della più totale inutilità, nonchè ad amplificare nel tempo e nello spazio attività della più disarmante banalità. In tutto questo, il dramma è costantemente in agguato e colpisce senza distinzione la popolazione autoctona e quella importata, cosicchè quei dieci minuti di ritardo di un collega diventano intollerabili e persino la mancanza di un codice a barre su un qualche sconosciuto pezzo del plumbing department può scatenare la terza guerra mondiale. Le uniche persone immuni da questa psicopatologia marziana siamo io, una collega irlandese ed una supervisor ganese e generalmente assistiamo alla tragedia del genere umano con lo stesso aplomb col quale dei nobili britannici assisterebbero ad una corsa di cavalli sui quali non hanno puntato.
In sala pranzo, ognuno si avviluppa al proprio cellulare per comunicare con familiari ed amici nella propria lingua natia, cosicchè si crea una sorta di babele dove ognuno si disturba a vicenda e maledice intimamente gli altri immigrati...salvo poi ritrovare unità e compattezza nel congiunto insulto al solito collega che riesce a vendere più degli altri. Per questo e per altri ottomila motivi, pereferisco sfidare i -20°C e le costanti tormente di neve e passare la mia paura pranzo altrove, piuttosto di correre il rischio di un'ulcera o, ancora peggio, quello d'incontrare di nuovo quella collega che sembrava così carina e simpatica fino al giorno in cui, tutta trionfante, ha iniziato a mostrarci foto di figlio e marito di fianco ad un gigantesco alce ucciso in una gita familiare, il cui scopo principale era quello di fare la pelle ad un orso. Inutile dire che, da quel momento, cerco di evitare questa tizia peggio della peste bubbonica e ciò non tanto per sensibilità mia, quando per paura di un un mio rigurgito di intolleranza che potrebbe portarmi a lanciare improperi in ogni lingua a me nota. Credo che l'azienda abbia dei luoghi specifici per la rieducazione di elementi come me e temo che tali strutture siano collocate ancora più a nord di qui. Oppure, forse, in Texas.
Se si è fortunati e si è di turno alla chiusura, si può prendere parte al meeting conclusivo della giornata, dove si tirano le somme del lavoro compiuto e, ancora una volta, si può gustare la coralità e la fratellanza aziendale, quando manager o facente funzioni chiede con tono serio e ricco di pathos “who are we?”, per gustare la roboante risposta della massa umana che, con tutte le forze residue dopo otto ore dedicate al più puro amore aziendale, risponde urlano a squarciagola il nome della ditta.
Anche la clientela è meravigliosa: spartani costruttori di case-distruggi-foreste, grezzi piccoli imprenditori arricchiti dal boom economico di Edmonton (viva il petrolio!!!), casalinghe smaniose di acquistare i sanitari più cool della zona, giovani coppie appena entrate in possesso di una casa nuova di pacca (e ancora, grazie petrolio!), oppure classiche famigliole canadesi desiderose di avere in salotto il proprio albero di natale vero-verissimo.
E a questo proposito vorrei ringraziare pubblicamente i miei datori di lavoro perchè è merito loro se oggi ho la resistenza al freddo di un semi-canadese, per cui sudo a -5°C e se mi si ghiacciano i peli del naso e pure gli occhiali a -20°C faccio spallucce e vado avanti a camminare. Grazie, perchè mi avete temprata con ore e ore nel gardening department, a dispensare alberi di natale con una collega gentile almeno quanto Mike Tyson (e grande uguale). Grazie, perchè sono sopravvissuta e potrò un giorno raccontare ad immaginari nipotini di figli che non avrò di quella volta che ho venduto un abete fir deluxe a temperature tali da distruggere il computer a nostra disposizione.
Thank God, seguendo il più autentico stile di vita nordamericano, al momento ho altri due lavori che mi permettono di salvaguardare la mia residua salute mentale e dove nessuno si sognerebbe mai di cantare inni o di andare in giro gridando ai quattro venti “I wanna kill a bear”.
Detto questo, domani mi alzerò all'alba, prenderò il mio pullman con autista del Punjub, arrancherò fino al mio posto di lavoro e, come sempre, simulerò una qualche patologia per dissimulare il mio disadattamento alla società marziana.