Non farò il nome
dell'azienda, ma sappiate che si tratta di una sorta di castorama
nordamericano, anzi del paradiso dell'home improvement, l'eden del do
it yourself, l'eldorado del bricolage, ecc. ecc. ecc.
E che ci faccio io in un
posto del genere? Semplice: percepisco un buon stipendio per
osservare allibita, part time, come si lavora su Marte. Insomma,
ricerca sociale sotto copertura.
La sensazione di essere
sbarcata su un altro pianeta ce l'ho in effetti avuta da subito, da
quando ci hanno caldamente incoraggiati a non indossare nulla di
arancione (il colore del nemico, l'altro leader del settore!) e ci
hanno sottoposti ad un training dove si veniva messi in guardia circa
i turpi sotterfugi escogitati dai sindacati per carpire soldi e
fiducia di ignari lavoratori.
La mattina, quando arrivo
al pelo col mio fake espresso Tim Horton's che viene regolarmente
sbeffeggiato da tutti, i miei colleghi si stanno già riunendo in
cerchio per definire gli obiettivi commercali della giornata, cantare
l'inno aziendale ed unire i propri pugni chiusi al grido di “customer
focused!”. Il tutto avviene mentre simulo un attacco di
incontinenza in bagno, una strabiliante inettitudine nell'allacciarmi
le scarpe aziendali oppure una curiosa lentezza del sistema di
registrazione delle ore...tutto pur di non dovermi sottoporre ad un
simle annichilimento della mia già moribonda dignità.
La routine lavorativa
marziana viene scandita da una solida disorganizzazione mascherata da
zelo ed iperattività, che porta tutti a dare estrema importanza (o a
fingere di darla) a cose della più totale inutilità, nonchè ad
amplificare nel tempo e nello spazio attività della più disarmante
banalità. In tutto questo, il dramma è costantemente in agguato e
colpisce senza distinzione la popolazione autoctona e quella
importata, cosicchè quei dieci minuti di ritardo di un collega
diventano intollerabili e persino la mancanza di un codice a barre su
un qualche sconosciuto pezzo del plumbing department può scatenare
la terza guerra mondiale. Le uniche persone immuni da questa
psicopatologia marziana siamo io, una collega irlandese ed una
supervisor ganese e generalmente assistiamo alla tragedia del genere
umano con lo stesso aplomb col quale dei nobili britannici
assisterebbero ad una corsa di cavalli sui quali non hanno puntato.
In sala pranzo, ognuno si
avviluppa al proprio cellulare per comunicare con familiari ed amici
nella propria lingua natia, cosicchè si crea una sorta di babele
dove ognuno si disturba a vicenda e maledice intimamente gli altri
immigrati...salvo poi ritrovare unità e compattezza nel congiunto
insulto al solito collega che riesce a vendere più degli altri. Per
questo e per altri ottomila motivi, pereferisco sfidare i -20°C e le
costanti tormente di neve e passare la mia paura pranzo altrove,
piuttosto di correre il rischio di un'ulcera o, ancora peggio, quello
d'incontrare di nuovo quella collega che sembrava così carina e
simpatica fino al giorno in cui, tutta trionfante, ha iniziato a
mostrarci foto di figlio e marito di fianco ad un gigantesco alce
ucciso in una gita familiare, il cui scopo principale era quello di
fare la pelle ad un orso. Inutile dire che, da quel momento, cerco di
evitare questa tizia peggio della peste bubbonica e ciò non tanto
per sensibilità mia, quando per paura di un un mio rigurgito di
intolleranza che potrebbe portarmi a lanciare improperi in ogni
lingua a me nota. Credo che l'azienda abbia dei luoghi specifici per
la rieducazione di elementi come me e temo che tali strutture siano
collocate ancora più a nord di qui. Oppure, forse, in Texas.
Se si è fortunati e si è
di turno alla chiusura, si può prendere parte al meeting conclusivo
della giornata, dove si tirano le somme del lavoro compiuto e, ancora
una volta, si può gustare la coralità e la fratellanza aziendale,
quando manager o facente funzioni chiede con tono serio e ricco di
pathos “who are we?”, per gustare la roboante risposta della
massa umana che, con tutte le forze residue dopo otto ore dedicate al
più puro amore aziendale, risponde urlano a squarciagola il nome
della ditta.
Anche la clientela è
meravigliosa: spartani costruttori di case-distruggi-foreste, grezzi
piccoli imprenditori arricchiti dal boom economico di Edmonton (viva
il petrolio!!!), casalinghe smaniose di acquistare i sanitari più
cool della zona, giovani coppie appena entrate in possesso di una
casa nuova di pacca (e ancora, grazie petrolio!), oppure classiche
famigliole canadesi desiderose di avere in salotto il proprio albero
di natale vero-verissimo.
E a questo proposito
vorrei ringraziare pubblicamente i miei datori di lavoro perchè è
merito loro se oggi ho la resistenza al freddo di un semi-canadese,
per cui sudo a -5°C e se mi si ghiacciano i peli del naso e pure gli
occhiali a -20°C faccio spallucce e vado avanti a camminare. Grazie,
perchè mi avete temprata con ore e ore nel gardening department, a
dispensare alberi di natale con una collega gentile almeno quanto
Mike Tyson (e grande uguale). Grazie, perchè sono sopravvissuta e
potrò un giorno raccontare ad immaginari nipotini di figli che non
avrò di quella volta che ho venduto un abete fir deluxe a
temperature tali da distruggere il computer a nostra disposizione.
Thank God, seguendo il
più autentico stile di vita nordamericano, al momento ho altri due
lavori che mi permettono di salvaguardare la mia residua salute
mentale e dove nessuno si sognerebbe mai di cantare inni o di andare
in giro gridando ai quattro venti “I wanna kill a bear”.
Detto questo, domani mi
alzerò all'alba, prenderò il mio pullman con autista del Punjub,
arrancherò fino al mio posto di lavoro e, come sempre, simulerò una
qualche patologia per dissimulare il mio disadattamento alla società
marziana.