lunedì 21 novembre 2011

Mentre ero via

Dall'altra parte dell'oceano, il tempo fugge veloce ed insieme lento. A volte è denso come una pumpkin pie, mentre a tratti è rarefatto come il cervello di Miss South Carolina.
Mentre ero via, sospesa in un'eterna adolescenza dove la massima preoccupazione è quella di aver terminato i calzini puliti e dove il conto dei giorni è tenuto grazie alla quantità di piatti sporchi accatastati nel lavandino, il mondo ha continuato a girare.
La gente si sposa, si riproduce, fa carriera, viene licenziata, si ammala, muore. E io? Io ero via.
La gente sono i miei amici, la mia famiglia. E io sono via mentre la loro vita cambia e procede a tappe forzate, mentre i piatti continuano ad accumularsi nel lavandino.
Elisa si è sposata e nelle foto io non ci sono: ora un vasetto raku lavorato a mano dai gioiosi sposi resiste ogni giorno ai pericolosi attacchi di Nello e Fleasa.
Livia ha avuto una figlia e io mi stampo la sua foto da appendere in camera, proprio di fianco a quella del figlio di Michela, che attualmente sarà più alto di me e che non ha ricevuto il costume di Halloween che gli ho spedito con tanto di fiaba d'accompagnamento (maledette poste yankee!).
Che dire di Anna? Lei “attende” e io non sono lì a dirle le mie amorevoli cattiverie per consolarla della crisi della scuola italiana. Ma la penso ogni volta che la mia collega mi racconta le intricate vicende dei suoi sei figli e tre amanti e l'unico commento che mi sale alle labbra è “Pota!”. E, a dire il vero, la penso anche in molte altre occasioni.
Viviana e le sue basette non sempre hanno avuto la vita facile, e pure per Dolly e per il Borz non è una passeggiata. E io posso solo mandare vigorose ma virtuali pacche sulle spalle (non sia mai che abbracci qualcuno!).
Il Benno e l'Ambrogino cercano di sopravvivere all'ennesimo Natale sulle barricate, mentre Chiara aspetta del make up direttamente dalla Grande Mela e Jacopino continua a sperare che un angelo gli bussi alla porta. Quest'anno non sarò con voi a bere il vinello della vigilia.
I miei fratelli accumulano pure loro piatti sporchi e bottiglie di birra vuote, ognuno nella propria casetta: quello più magro sta diventando un attore di successo, mentre quello più grassottello programma il prossimo espatrio. Lo sapranno mai quanto mi mancano, in questo polveroso (e pulcioso) lunedì sera, in quest'ansa intestinale che è Kingston, NY?
Oggi con la Gabry abbiamo deciso che, di fronte alle difficoltà della vita, saremo uomini veri: perché lo scoraggiamento è la scusa degli imbecilli. Ma come si fa se, mentre ero via, i miei genitori sono diventati più piccoli e io sono sempre la stessa bambina che non sa mangiare nessun tipo di alimento senza sporcarsi in maniera bizzarra? Si fa! Mentre sono via, io sono anche lì...a mo' di fantasma che infesta la casa e che la notte si aggira in cucina alla ricerca di patatine fritte o di lasagne vegan. Se inciampate, io non potrò essere la mano che vi rialza, ma sarò di sicuro la voce che vi consola e che vi sprona a continuare a camminare anche se avrete paura di cadere.
Mentre ero via, tutti quanti sono andati avanti con le proprie vite e io mi sono atteggiata al Jack Keruac della situazione. Ma non sapevo fare altrimenti.
Ogni volta che, all'alba, lotto contro le portiere della Sweet Princess ermeticamente sigillate dal ghiaccio, mi chiedo perché mai mi ostini a presidiare questo ghetto di crackomani e venditori di armi e, sebbene parte della risposta stia nel semplice fatto che mi agghiaccia l'idea di dover affrontare il fucking mercato del lavoro italico, la realtà è che (a discapito dell'età, presto combattuta a colpi di botox) non so ancora abbastanza di me per poter tornare a casa.
E che in questo viaggio imparo ogni giorno qualcosa che, sebbene fosse in qualche modo evidente anche prima, non mi era dato di vedere altrimenti.
Mentre sono via, cercate almeno di far finta che vi manchi, porca paletta!

domenica 20 novembre 2011

Amene festività ammmericane

In una terra dove le decorazioni di Natale ci hanno scaldato il cuore anche a ferragosto, il saggio antropologo vive con un misto di ansia e costernazione l'arrivo delle pittoresche festività ammmericane.
Da che siamo sbarcati nel Nuovo Continente, io e l'antropologo ci siamo beccati il Super Bowl , il Saint Patrick's Day, Pasqua, il Memorial Day, Independence Day, il Labor Day, il Columbus Day, Halloween e pure il Veterans' Day.
Per quanto concerne il Super Bowl, ovvero la finale del campionato di football, sebbene non sia una “legal holiday”, quaggiù riscuote più successo del seno di Snooki e serbo nel mio cuore il caro ricordo di gente avvinazzata e di locali stracolmi di gente. Ovviamente, mi è tuttora oscuro il risultato della finale, ma credo di aver comunque festeggiato con una birra.
Il Saint Patrick Day, celebrato il 17 marzo, è essenzialmente un inno alla birra ed alla cirrosi epatica. Orde di americani mastodontici, rossicci e lentigginosi celebrano le proprie origini irlandesi vagando seminudi in sfregio al freddo becco newyorkese (qui ha nevicato anche il primo giorno di primavera!), mentre negli irish pub si fa fatica a muoversi per via del pavimento reso viscido dagli ettolitri di alcol fatto cadere da teenagers ubriachi marci e dagli stessi teenagers caduti al suolo per la strabiliante quantità di birra nelle vene. L'unica modifica che apporterei a questa gioiosa festività consiste nella qualità della birra reperibile negli Stati Uniti: direi che solo nel fetido birrificio sulla Broadway frequentato da motociclisti mummificati e in New Mexico ho bevuto della birra decente (e non era americana).
La Pasqua passa in fretta e sotto silenzio: non ci sono le uova di cioccolato con dentro le sorprese, non c'è la colomba vegan comprata al negozio di via Copernico e dura più del cemento, non c'è il pranzo da ma' e pa'. Qui ti guardano storto se cerchi di spiegare perché è bello avere l'uovo da rompere la domenica e si sentono molto, ma molto cool perché incellofanano orridi cestini di plastica stracolmi delle schifezze più fetide prodotte in Cina per questo raffinato mercato. Personalmente, ho celebrato la festività con delle - come dire? - interessanti lasagne olandesi e credo che certe esperienze ti facciano capire perché l'Olanda sia famosa per sesso e droga, ma non se la caghi nessuno per la cucina.
Ad essere onesti, non ho ancora capito il significato del Memorial Day, festeggiato l'ultimo lunedì di maggio, ma credo sia una specie di giorno di commemorazione per i soldati americani caduti in guerra...e allora, senza voler mancare di rispetto, mi chiedo a cosa cacchio serva il Veterans' Day, dal quale sono appena reduce. Dico solo che la quantità di bandiere a stelle e strisce che impacchettava ponti, statue, scuole, municipi, macchine, centri commerciali e quant'altro era davvero imbarazzante e che, al lavoro, mi è pure toccato aiutare gli utenti a fare i lavoretti sul tema “quant'è eroico morire in guerra”. Credo che la mia dignità sia evaporata a long time ago.
Dell'Independence Day ricordo con piacere l'orrida parata alla quale ho assistito in quel di New Paltz, dove audaci gruppi di ottuagenari e manipoli di boy scouts hanno percorso le vie dal paese a bordo di pick up di dimensioni epiche, intabardati in bandiere ammmericane, in tute mimetiche o in uniformi uscite direttamente da Ufficiale e Gentiluomo, ma made in China. L'evento più rimarcabile occorso in tale circostanza è stato il tentativo di rendermi cieca ad opera di un bimbo biondo sicuramente destinato a diventare un cecchino in qualche guerra in Medioriente: ditemi perché in questo paese è legale lanciare, a velocità da Joe Di Maggio, caramelle chimiche dai pick up in parata? Per poco non ci perdevo un occhio! E le caramelle facevano pure schifo...
Il Labor Day è la festività in assoluto più comica: si celebrano i lavoratori in un paese dove i diritti sindacali (e pure qualche altro tipo di diritto...) vengono generalmente utilizzati a mo' di toilet paper. In ogni caso, anche qui c'era un grande tripudio di star-spangled banners in ogni dove, per la gioia dei bambini cinesi addetti alla produzione delle bandiere.
Che dire del Columbus Day? In quest'amena occasione, durante la quale ricordiamo la scoperta del Nuovo Continente, non sono solo i bambini cinesi a ringraziare, perché al coro dei ringraziamenti si uniscono pure i nativi americani, sterminati da quei buontemponi degli europei.
Halloween è di gran lunga la mia festività preferita, perché mi ha dato modo di sfoggiare un graziosissimo parruccone fucsia e delle ciglia finta che nemmeno Platinette oserebbe appiccicarsi in faccia. I preparativi per Halloween iniziano all'incirca alla fine di agosto e, per l'occasione, vengono aperti negozi ad hoc che, sotto Natale, verranno poi riconvertiti in punti vendita di babbi natale plasticosi ed alberelli sintetici. Tutti festeggiano Halloween, tranne i giamaicani che, in quanto a superstizione, sono pure peggio di noi italiani.
Per non farmi mancare niente, ho abbellito la nostra pulciosa dimora dispiegando sulla veranda una tela di ragno grande quanto un campo da football (che è stata rimossa circa due settimane dopo Halloween, quando aveva ormai raccolto tutto lo sporco e le foglie secche del vicinato), appendendo alla porta un orrido cartello con la dicitura “Enter, if you dare!” (che rimarrà dove si trova almeno fino a ferragosto) e comprando una zucca, sempre in plastica e sempre made in China, ricolma di caramelle del discount, che ho portato in extremis a Nata il giorno di Halloween: la poverina aveva spento tutte le luci di casa e si era nascosta nel buio e in silenzio, per evitare che orde di bambini yankee venissero a bussare alla nostra porta in cerca di saccarosio, per poi insaccarla di botte una volta scoperta la totale mancanza di candies.
Intanto, io e il saggio antropologo ci stiamo preparando con orrore e raccapriccio al Thanksgiving Day, detto anche Turkey Day: il giorno del tacchino. La mia collega Michele mi ha già annunciato che friggeranno un dinosauro nella friggitrice industriale del fratello, mentre un'altra coworker si prepara ad una più tradizionale cottura al forno che la vedrà impegnata per sole sette ore.
Per quel che mi riguarda, cercherò di sopravvivere al giorno del ringraziamento comprando il TofuTurkey che ho già adocchiato al supermercato e cercando rifugio in quel di Washington DC.
Per tutti quelli che non soccomberanno a pesantissimi processi digestivi e ad intossicazioni da grassi saturi, un'altra dura prova si profila all'orizzonte: il famigerato Black Friday. Ma questa è un'altra storia...

giovedì 3 novembre 2011

Sit tibi terra levis

Sit tibi terra levis.
Che la terra ti sia lieve, come tu lo sei stato per questa terra.
Leggera come milioni, miliardi di ali.
Tutte quelle che hai riparato, da provetto artigiano del cielo.
Che gigante che eri e che lavoro di minuzia facevi sui piccoli corpi pennuti!
Ma come ci riuscivi?
Dall'altra parte dell'oceano, sulla mia testa volano stormi diretti a sud.
Nessuno sa dire la solitudine delle alte quote quando, con la testa tra le nuvole ed il vento a sostenerti le ali, sfidi gli dei, invidiosi del tuo volo.
Forse a te gli amici alati hanno svelato i loro segreti e, da qualche parte, vi fate beffe di chi sta quaggiù: come dev'essere ridicolo l'essere umano visto dall'alto!
Guido, che la terra ti sia lieve.

giovedì 20 ottobre 2011

Occupy Wall Street

Domenica scorsa ho deciso di evadere dalla provincia americana, tutta immersa nei preparativi per Halloween, e di fare una capatina nella City. A meno di due ore da Poughkeepsie, ecco dispiegarsi la classica, ventosa, luminosa domenica mattina di ottobre a New York: Manhattan è popolata da turisti armati di cartine spiegazzate dal vento autunnale; da newyorkesi fighetti intenti a fare jogging tra auto parcheggiate con fantasia e yellow cabs lanciate, come sempre, a folle velocità; da signore dotate di borsa porta-teacup dog (Louis Vuitton, of course) e da donnoni fasciati da improbabili tutine rosa, in marcia per la corsa della breast cancer awareness. Io decido di mischiarmi a questa multiforme umanità e, lottando contro il vento contrario, mi sparo a piedi dalla Quarantaduesima strada al Financial District, con strategiche fermate a Union Square (per mangiare un pacchetto di patatine seduta su di una panchina) e al Washinghton Square park (per mangiare un altro pacchetto di patatine su di un'altra panchina).
Prima di raggiungere Wall Street, la città sembra la solita Grande Mela di sempre: tra SoHo e NoLita gruppi di giovani radical chic e hipsters affollano con costruita grazia i marciapiedi di bar sofisticati, celebrando il rito del brunch; in un campetto recintato, un padre belloccio lancia la palla da baseball al figlioletto biondiccio, il quale fa di tutto per prenderla col classico guantone, per rendere il padre orgoglioso; negli autolavaggi gestiti da messicani vengono alacremente incerati macchinoni che difficilmente troveranno un parcheggio pubblico a Manhattan e limousine di qualche riccone esibizionista.
Poi, un poco per volta ed inaspettatamente, inizia a fare capolino il popolo dei 99%: colorati, rumorosi, vivi. Niente borse Louis Vuitton. Niente teacup dogs. Niente brunch. Niente limousine.
Quando finalmente arrivo allo Zuccotti Park, mi si para davanti uno spettacolo che difficilmente si vede quaggiù: centinaia di persone occupano la graziosa piazzetta, dove sono accampate da giorni. Tutt'intorno, poliziotti annoiati e scocciati per la domenica trascorsa a transennare quella che in molti catalogano come un'orda di giovani fattoni e vecchio ciarpame del '68, invitano i passanti a lasciare libero almeno il marciapiede, ma in pochi sembrano dar loro retta.
Pare incredibile, ma Wall Street è occupata. Materassi, sacchi a pelo e giacigli improvvisati ricoprono l'asfalto dello Zuccotti Park; qua e là punk e hippies vecchi e nuovi schiacciano un pisolino per riacquistare le forze; sulle scalinate, un manipolo cristiano canta “We shall overcome” e “Going to the river”, con un prete belloccio ed una donna prete cicciottella come lead singers; cuochi vegetariani spignattano in un'improvvisata cucina da campo, mentre un gruppo di tibetani suona e canta chiedendo di dirottare i soldi da inutili guerre “umanitarie” alla difesa dei diritti umani; più in là, due sessantenni improvvisano pezzi rock con un paio di chitarre acustiche e degli artisti di strada stanno rappresentando un pezzo sullo sfruttamento; al banchetto contro gli ogm si possono raccogliere informazioni sui misfatti della Monsanto, mentre una ragazza seduta su un vecchio tappeto promuove i software open source.
Nella stretta superficie dello Zuccotti Park si fa fatica a muoversi, tanta è la gente, e il clima che si respira è un insolito miscuglio di festa, rabbia e voglia di cambiamento.
Credo che per molte delle persone presenti si tratti della prima manifestazione alla quale prendono parte in tutta la propria vita. Probabilmente, nel corso degli anni, hanno assistito a mobilitazioni contro la pena di morte, contro le trivellazioni petrolifere in Alaska, contro la guerra in Iraq e contro altre delle migliaia di scelleratezze che questo paese partorisce alla velocità della luce. Hanno sempre assistito senza partecipare, guardando i manifestanti dall'altra parte della strada, dall'altra parte delle transenne. Ora che la crisi sta toccando più o meno ogni cittadino americano, travolgendo uno stile di vita basato essenzialmente sul consumo sfrenato di ogni sorta di bene e sulla totale mancanza di preoccupazione per il futuro (del resto, chi pensava di svegliarsi dal sogno americano?), ci si ricorda di essere il 99% e si dimentica facilmente che, fino a pochi anni fa, si desiderava semplicemente imitare quel tanto vituperato 1%.
Eppure, l'energia che satura questa piazzetta mi fa quasi (quasi!) lasciare da parte il mio senso critico, per ammirare quella che è probabilmente la migliore dote di questo popolo: l'entusiasmo. Gli americani, nel bene e nel male, sono come bambini entusiasti.
Dopo aver respirato un po' di energie rivoluzionare, mi trascino fino a Battery Park e sonnecchio cinque minuti su una panchina di legno, mentre il tramonto colora di rosso la Statua della Libertà. Tutt'intorno, famiglie ebree appena uscite dalle sinagoghe si godono la brezza del tardo pomeriggio e le ultime ore della festa dello Sukkot.
Quando inizia a fare buio, mi metto in marcia e copro a tempo di record la distanza tra Bowling Green e Grand Central, per immettermi nel flusso dei provinciali che tornano a casa.
Ma quant'è triste la provincia dopo aver respirato l'aria di Wall Street occupata!

sabato 8 ottobre 2011

Lettere dal divano: terza missiva

Cara Sbarbatella,
Questa lettera dal divano te la scrivo direttamente dal letto, dove sono finalmente approdata alle ore 1.30 della notte, dopo la consueta conversazione con Kamalita sulla vita, le pulci e i loro relativi misteri.
Oggi, per paura che la sciura che ha comprato la macchina di Bas si palesasse armata di motosega, come nei migliori film splatter, ho passato a casa solo una mezz'oretta scarsa e mi sono data a molteplici ed avvincenti attività.
Per prima cosa, sono arrivata con un'ora e mezza di ritardo al corso d'inglese: la puntualità non è mai stata il mio forte ma, grazie al cielo, il professore mi vuole bene perché sono italiana e conosco la metrica latina. Tutte qualità che garantiscono il successo qui in America!
Dopodiché sono rimasta imbottigliata nel traffico mentre tentavo di prelevare Fancisco da New Paltz per portarlo al Target di Kingston a cambiare un orrido affare portasapone che aveva comprato senza accorgersi della mancanza delle ventose, necessarie per attaccarlo al muro. Dal momento in cui abbiamo messo piede al centro commerciale, si è scatenato l'inferno che, nella fattispecie, è per me consistito in quasi quattro ore di discussioni su tendaggi, aste reggi-tenda, pouf, forni elettrici, spazzoloni per gabinetto...
Centocinquanta dollari e due centri commerciali più tardi, abbiamo finalmente raggiunto Kamalita per poter cenare all'ormai mitico ristorante indiano di Kingston. Ho qui vissuto il momento più esaltante della giornata e, forse, dell'intera settimana: Ahmad, cameriere bengalese e vera anima del ristorante, mi ha sfidata a riconoscere quale tra gli alu paratha che stava servendo fosse stato fritto nell'olio e quale nel burro. Tra gli sguardi allibiti degli avventori, dopo una rapida valutazione del cibo, ho senza esitazione individuato il mio paratha vegan, mentre la mia fama già iniziava a diffondersi per tutta l'Ulster County.
L'avventurosa giornata è proseguita con l'installazione delle tende (marroni!) a casa di Francisco ed il ritorno alla nostra magione, reso arduo dalla mia fobia di cervi, raccoon, opossum, volpi e marmottine kamikaze, nonché dal preoccupante fenomeno del “tutte le strade portano a Poughkeepsie”, a causa del quale, qualunque sia la mia meta, mi ritrovo sempre, involontariamente, sulla 9W per Poughkeepsie, che percorro in una sorta di trance dalla quale mi risvegliano i passeggeri di turno, ricoprendomi di improperi per aver imboccato la strada sbagliata.
Per quanto riguarda Fagiolo, ti basti sapere che è in vita ed è disperso da qualche parte a Washington, dove verso le cinque del pomeriggio era già ubriaco fradicio ad un party a casa di qualcuno.
La tua macchina sta bene e ti saluta. Ieri sono andata a trovarla mentre portavo un paio di mele ai woodchucks nel cortile sul retro. Non si capacita come sia possibile avere la brina sul parabrezza la mattina, schiattare di caldo a mezzogiorno e poi ripiombare nel freddo antartico la notte, ma comunque non si lamenta perché non sono previste alluvioni e, quindi, non le pioverà dentro come di consueto.
Per quanto concerne la mia macchina, ho pensato che potrei anche non far riparare la serratura della portiera, ma iniziare a fare come Bo e Luke ed entrare dal finestrino. Che ne pensi? Sono troppo vecchia per questo tipo di cose?
Ora, cara Sbarbatella, credo proprio di essere in procinto di svenire a causa del sonno e della difficoltosa digestione del mio alu paratha, quindi mi congedo augurandoti una gioiosa domenica italiana.

giovedì 6 ottobre 2011

Lettere dal divano: seconda missiva

Cara Sbarbatella,
ti scrivo dalla solita postazione divanosa, dalla quale mi muoverò tra qualche minuto per trascinarmi faticosamente fino al mio lettino, che non viene rifatto da tempo immemore (scusa mamma, ma a trentadue anni passati ancora mi ribello a queste regole borghesi!).
Un'oretta fa, il prode Fagiolo si è lasciato cadere dalla cucina giù per le scale ed è rotolato stancamente verso la sua camera, lamentando la classica spossatezza da cibo indiano troppo salato: probabilmente ora il cloruro di sodio col quale Kamalita ha infarcito i propri manicaretti sta lentamente prosciugando tutti i liquidi presenti nel corpo del nostro roommate ammericano, riducendolo ad una prugna secca californiana. O forse la muffa avrà la meglio sul sale e tramuterà Marcelito in un funghetto. Lui di sicuro preferirebbe quest'ultima opzione!
Il divano più pulcioso è attualmente occupato da Kamalita, che si sta sparando la solita telenovela indiana con agghiacciante colonna sonora, mentre Nello ed American Patatina (la gatta dei vicini) sono alla ricerca di nuove pulci nel vicinato.
Prima di avere l'ennesimo attacco di narcolessia e morire annegata nella mia stessa saliva, ti elenco velocemente i fatti più salienti:
  • oggi, dopo quattro lunghi giorni di agonia, abbiamo finalmente lavato la teglia contenente la lasagna olandese cucinata da Bas lunedì. Questa è una grande vittoria contro lo sporco, e non permetteremo all'attuale presenza di altre pentole zozze nel lavandino di gettare ombre nefaste sul nostro trionfo.
  • Da stamattina, siamo barricati in casa e sobbalziamo ad ogni macchina che si fermi davanti a casa, mentre Fagiolo ha deciso che non risponderà mai più al telefono: Baastian Bloom si è dato alla macchia prima di farsi catturare dalla sciura che ha acquistato il suo Pathfinder privo di Certificate of Title. Oggi, bello bello, è partito per New York City e ha spento per sempre il cellulare americano. Insomma, il marrone della macchina del Maine ci perseguiterà per le prossime tre settimane, ovvero finché entreremo in possesso dell'agognato documento (che, insignificante dettaglio, necessiterebbe comunque della firma di Bas) e potremo consegnarlo alla povera vecchietta, della quale, peraltro, ignoriamo telefono ed indirizzo. Lei, purtroppo, sa benissimo dove trovarci. Sto quindi pensando di addestrare Nello alla difesa delle nostre persone. O magari farei meglio a puntare sulle pulci...
  • prima di barricarmi in casa, ho trovato addirittura le forze per pulire la veranda...su esplicita richiesta della manager dell'edificio...e meno male che nessuno qui parla italiano, perché gli improperi da me proferiti avrebbero reso orgoglioso il mitico Cecco Angiolieri. Adesso la nostra veranda è un gioiellino di pulito ed ordine e spero proprio che la vecchina di Bas non decida di defecare davanti alla nostra porta, in segno di spregio.
  • Di fronte al nostro ridente luogo di lavoro hanno arrestato l'ennesima persona, ma non ho capito se per rissa o per spaccio. Chiederò a Michele: ovviamente, lei lo conosce.

Ora direi che posso cercare di trascinare le mie stanche membra fino al secondo piano, tentando di non addormentarmi lungo le scale polverose. Credo che domattina migliorerò il mio record di improperi, perché quando la sveglia suonerà alle ore 5.40 probabilmente inizierò ad imprecare in black slang.

martedì 4 ottobre 2011

Lettere dal divano: prima missiva

Cara sbarbatella,
sei partita da poco più di un giorno per pizza-mafia-land (paese qui famoso per aver martirizzato la novella eroina Amanda Knox nel corso degli ultimi quattro anni) ed è mio dovere tenerti aggiornata sui mirabolanti avvenimenti della nostra american life.
Innanzitutto, vorrei portare alla tua attenzione la recente sfiga cosmica dell'ormai ex roommate Bastiaan Bloom. Il suddetto ragazzone olandese, in partenza per la terra natia, dopo essere stato sbattuto fuori dalla nostra confortevole casa pulciosa, secondo la migliore tradizione a stelle e strisce, è ora alle prese con la maledizione del documento disperso. Per comprendere le radici di questo pasticciaccio brutto, è necessario ritornare indietro nel tempo, e precisamente a marzo, quando a tutti noi felici acquirenti di macchine usate del Maine, venne recapitato il Certificate of Title che, ai severi occhi delle autorità d'oltreoceano, ci rende a tutti gli effetti proprietari dei nostri pregiatissimi bolidi. A tutti, tranne che a Bas perché, probabilmente a causa di un attacco iperglicemico da ciambelle, il famigerato meccanico Chris di Skowhegan vergò con mano incerta un indirizzo inesatto sul documento del povero Bloom che, a otto mesi di distanza, si sta ora chiedendo a chi cacchio abbiamo recapitato la preziosa missiva. Il risultato di questo eccesso di zuccheri nel sangue di Chris, è l'attuale impossibilità di registrare nello stato di New York il Pathfinder arrugginito venduto per metà dell'originario prezzo d'acquisto, che rischia ora di ritornare in mano olandese, mentre l'assegno di duemila dollari potrebbe fare ritorno nelle mani della sciura che, sfidando la mega rissa in atto tra i nostri vicini e pure l'arrivo della polizia, sabato scorso ha acquistato la macchina, o almeno ci ha provato...
L'incresciosa situazione potrebbe risolversi, nel migliore dei casi, con una telefonata in fanta-inglese alla motorizzazione del Maine ed il successivo invio del certificato con posta ultraprioritaria, oppure, nel peggiore dei casi, con una piacevolissima e rilassante gita di Bas, scortato da Kamalita, in quel di Skowhegan: del resto, si tratta di sole otto ore di macchina su strade disperse nei boschi!
Per quanto concerne me e Fagiolo, ormai ci siamo spartiti i divani: lui si è preso quello con più pulci, mentre io faccio finta di credere che su quello dove appoggio le chiappe da circa quattro ore lo spray col quale sto piano piano distruggendo il pianeta abbia creato una sorta di kharma protettivo. Per questo, se sento strani pruriti o vedo cosine piccole, nere e saltellanti, faccio finta che siano allucinazioni dovute all'ingente quantità di muffa che permea pareti, soffitto e pavimento della nostra magione. Dopo un impegnativo brain storming, siamo infatti giunti alla conclusione che l'abnorme apatia che ci ha colpiti una volta rincasati dal lavoro abbia le proprie radici nella contaminazione da funghi pluricellulari. E per darti l'idea della gravità del contagio da muffa, ti basti l'elenco delle attività da noi svolte questo pomeriggio:
  • io: mangiare nella ciotola dei cereali del riso in bianco surgelato cotto nel microonde, con un contorno di gelato al latte di cocco. Inveire contro la malasorte del Bloom con Fagiolo e Kamalita, raggiunta telefonicamente in quel di Woodstock. Mangiare del cous cous, anch'esso cotto al microonde e condito (orrore! orrore!) con del ketchup che non mi appartiene (se è tuo, da quanti mesi è aperto...?).
  • Fagiolo: trascinarsi fino al benzinaio sulla Broadway e al KFC; messaggiare amici misteriosi ubicati in posti a noi sconosciuti.
  • Nello: provocarmi un'emorragia al dito mentre con Fagiolo si cercava di cospargerlo di antipulci. Non siamo andati all'emergency room solo per pigrizia.
In questo momento, Nello è fuori da qualche parte a lamentarsi con gli amici di quanto l'abbiamo torturato con l'antipulci, Fagiolo sta ancora messaggiando, io sono ancora alle prese col cous cous (oh, fa proprio schifo!), mentre in tv danno orridi telefilm musicali o ancora più fetidi programmi su poliziotti con facce idiote che arrestano messicani impegnati a farsi di coca nel bagno di un tristissimo pub in Florida. Temo che la muffa ci impedirà di abbandonare la nostra postazione divanosa e che al tuo ritorno ci troverai nelle medesime condizioni, o forse peggio.
Insomma, sei sicura di voler tornare?


sabato 24 settembre 2011

Morire in America

Non ho mai visto New York City così cupa, grigia e silenziosa come l'undici settembre.
Le strade, svuotate di macchine e yellow cabs, sono color piombo e blu polizia, mentre, a seconda della zona di Manhattan nella quale ci si trovi, i marciapiedi strabordano di turisti e cittadini con facce contrite e smunte, di pompieri di origine irlandese palesemente ubriachi fradici e ammassati all'ingresso di qualche Irish pub, di venditori di bandierine americane (made in China), di strani personaggi che arringano piccoli capannelli di gente sulle proprie teorie esplicative della tragedia delle torri gemelle e di visitatori delusi per la mancata apertura al pubblico dell'area di Ground Zero. E, infatti, se non sapessi di essere in America, potrei benissimo credere di trovarmi di fronte all'ennesimo eterno lavoro in corso nostrano perché, dopo dieci anni, l'area dove sorgeva il World Trade Center è ancora un cantiere aperto, nel quale centinaia di operai latinoamericani lavorano ogni giorno, alcuni anche in quest'undici settembre.
Camminando, ci si imbatte in cancellate piene zeppe di nastri bianchi legati alle inferriate, sui quali parenti ed amici delle vittime o semplici passanti hanno voluto scrivere preghiere o ricordi.
Il piccolo museo dedicato alla tragedia è gremito di gente e, per una buona metà, è stato invaso da uno squallido negozio che vende cimeli sull'undici settembre, perlopiù made in China.
Ci sono bandiere a stelle e strisce in ogni dove: a drappeggiare palazzi, chiese, cimiteri, persone, a far sentire l'America unita nel ricordo delle circa tremila persone morte negli attentati.
Il solito saggio antropologo noterà che, per attivare la modalità “patriota” nell'americano medio, basta sventolare una Star-Spangled Banner bella inamidata, magari mettendo in sottofondo l'inno nazionale cantato da qualche bambino particolarmente dotato. Non voglio sminuire l'impatto dell'undici settembre, perché credo che il dolore causato da quelle perdite vada profondamente rispettato e perché mi ricordo l'espressione della mia collega mentre ci raccontava di aver perso un amico in una delle torri o del mio professore d'inglese quando ci ha parlato di un suo cugino,, impiegato al Pentagono salvatosi per un caso fortuito. Quello che voglio dire è che è troppo facile ridurre il campo visivo di questa nazione, perché nessuno qui sa nulla delle tragedie che quotidianamente accadono in parti del mondo delle quali si ignora addirittura l'esistenza e perché, senza andare troppo lontano, a Manhattan non ho visto nemmeno il minimo accenno alla silenziosa tragedia di chi, a causa delle esalazioni sprigionate dal crollo degli edifici, sta combattendo ogni giorno la propria personale e dimenticata battaglia contro fibrosi polmonare o cancro. A costoro, poliziotti, pompieri, operai impegnati nella rimozione delle macerie, e ai familiari di chi nel corso del tempo è stato stroncato dalla malattia, dopo quasi dieci anni di controversie giudiziarie (pagate dalle vittime, of course) è stato riconosciuto un risarcimento decisamente inferiore alle richieste e vincolato alle migliaia di cavilli ed ostacoli con cui le assicurazioni sanitarie quotidianamente rendono il diritto alla salute un concetto quaggiù pressoché sconosciuto. Probabilmente, alle vite di queste persone viene attribuito un valore minore, in virtù del minor “impatto simbolico” delle loro esistenze o della minore copertura mediatica.
A proposito di clamore, qualche giorno fa le prime pagine di tutti i giornali erano dedicate al caso di Troy Davis, la cui condanna a morte è stata eseguita dopo due decenni passati in carcere.
Grazie alla mobilitazione internazionale ed alla battaglia della famiglia di Davis, anche l'americano medio, tra una pasto da Kentucky Fried Chicken ed un pellegrinaggio al Wal Mart, conosceva (più o meno a grandi linee) i contorni della vicenda. Sebbene il peso della vita di quest'uomo si sia alla fine rilevato meno consistente del peso delle prossime elezioni ed Obama abbia fatto finta di niente (playin' possum, come dicono da queste parti, cioè fingersi morto come l'opossum in situazioni di pericolo), fischiettando gaiamente mentre i boia facevano il loro tristo mestiere, l'eco della storia di Troy Davis è inaspettatamente risuonato anche qui nella provincia newyorkese. Da una conversazione mattutina con una collega, ho infatti toccato con mano quanto la comunità afroamericana della ridente contea dove lavoro sia rimasta scossa dalla vicenda e questo, credo, per due ragioni fondamentali: i dubbi relativi ai motivi razziali alla base dell'incriminazione sono qui ampiamente condivisi (il 99% dei poliziotti da me incrociati nel corso degli ultimi sette mesi è bianco) e, inoltre, tutti quelli che conosco hanno o hanno avuto un congiunto in carcere (generalmente per droga o furto d'auto, ma spesso anche per aggressione ed altri reati violenti), cosa che rende sensibili rispetto all'esperienza di Davis.
Inutile dire che, tra una settimana, qui in provincia non si parlerà più di Troy Davis perché, anche se il peso della sua morte qui è forse più grande che altrove, ci sono di volta in volta altri morti da commemorare: settimana scorsa si trattava di un ragazzo pugnalato a morte un anno fa nella via dove lavoro, per il cui anniversario gli amici hanno acceso lumini e portato palloncini colorati sul luogo dell'omicidio; due giorni fa era un uomo ucciso a colpi di pistola nella via parallela.
Ammetto di non essere curiosa di sapere a chi toccherà essere ricordato la prossima settimana.


mercoledì 14 settembre 2011

On the road

Credo che nemmeno gli Inuit abbiano coniato un vocabolo adatto a descrivere il freddo becco e paralizzante che abbiamo patito durante l'interminabile notte all'aeroporto di La Guardia. Per quanto tentassi di visualizzare immagini di cibi/bevande/posti/oggetti caldi, sentivo le mie ossa scricchiolare per il gelo come rametti rattrappiti da un'inattesa gelata, che nemmeno l'ologramma della minestrina del malatino avrebbe potuto sconfiggere. È un dato di fatto: gli americani hanno una patologica fissazione per l'aria condizionata e, quando credi di esserti finalmente messo in salvo dall'antartide aeroportuale e ti accingi a salutare con la manina bluastra gli orsi bianchi e gli intirizziti shoe shiner (sì: purtroppo esiste ancora qualcuno che si fa lucidare le scarpe!), ti accorgi che la ruota della fortuna non ha alcuna intenzione di girare a tuo favore e che il viaggio in alta quota si trasforma in un'altra tappa di questa ghiacciolosa via crucis, dove solo i ladroni della business class hanno diritto alla copertina di plaid.
Dopo cinque ore di volo da New York ad Albuquerque, con scalo a Dallas, a stento riusciamo a muoverci per gli stenti patiti, ma siamo felici. Guardandoci attorno, viene da chiederci “chi cacchio scenderà mai ad Albuquerque, oltre a noi?”. Semplice: ricettatori di macchine rubate, indiani nativi, cowboys, messicani, tamarri. Grazie al cielo, nessun italiano!
La scelta di questo luogo è stata dettata dalla sua posizione strategica rispetto alle zone che intendiamo visitare, dal prezzo economico (per forza: chi cacchio vuole andare ad Albuquerque?) e dalla forza delle coincidenze e del fato che, mentre eravamo in procinto di prenotare un volo per Tucson o Phoenix, si è palesata con una telefonata di Amber, una sconosciuta parrucchiera di New York in fissa con gli indiani, ad annunciare lo svolgimento di un'ambitissima cerimonia Apache di guarigione proprio ad Albuquerque e proprio nei giorni in cui avremmo dovuto prendere il volo di ritorno. Siccome non si può sputare in faccia al destino, abbiamo quindi gonfiato le nostre vele in direzione del New Mexico. Inutile dire che, sempre a causa del fato, alla fine abbiamo bigiato la famigerata cerimonia, preferendo tenerci tutti i nostri più disparati acciacchi.
Una volta arrivate ad Albuquerque, abbiamo prelevato la macchina in affitto prenotata on line insieme al volo e, nonostante i miei strenui tentativi di scegliere un gippone che il Bas Bloom mi avrebbe invidiato per il resto dei suoi giorni, l'indole lungimirante della Babi ci ha convinte ad optare per una più sobria Toyota Corolla, da me ribattezzata Desert Rose. Inutile dire che, nonostante il pomposo nome, nel giro di mezz'ora la povera Corolla era già ridotta peggio di una discarica di Calcutta, grazie a carta straccia, pacchetti semivuoti di patatine fritte, vestigia di poveri insetti spiaccicati sul paraurti (per la cui uccisione pagherò da qui ai prossimi cinque anni in termini di bad kharma), cibo nepalese putrefatto, sabbia rossa del deserto e, colpo di grazia, galloni e galloni di acqua che forse non si asciugherà mai, rovesciati a ripetizione dall'incauta Kamalita, regina dei tappi male avvitati.
Questo memorabile pellegrinaggio keruacchiano nel far west, lungo 2800 e più polverose miglia, ha avuto come prima tappa la fighettissima Santa Fe, capitale del New Mexico e punto di riferimento per signore attempate e rifatte (ma con classe), anonime folle con velleità artistiche e nativi americani con tanto di patentino d'autenticità impegnati nello strenuo tentativo di vendere graziosi gioielli in rame o abominevoli patacche a turisti più o meno sprovveduti. Siccome noi apparteniamo a questa seconda categoria, Kamalita ha ben pensato di acquistare un originalissimo braccialetto da una pingue pseudo indiana, alla gioiosa cifra di venti dollari. Colgo qui l'occasione per suggerire al saggio antropologo di dedicare un minuzioso studio alla propensione nepalese per lo shopping compulsivo, causa, nel corso del viaggio, dell'acquisto di un altro braccialetto taumaturgico in rame contro i reumatismi (made in India), di una collana in pietre rosse plasticose (paese d'origine supposto: Cina), di una maglietta con la scritta “I love Las Vegas” (anch'essa made in China), di una penna (cinese) della Mesa Verde e di una maglietta (questa made in Nicaragua) del Grand Canyon.
Vicino a Santa Fe sorge il ridente villaggio di Taos che, visitato di prima mattina e nel corso di una disperata ricerca di public restrooms, è a tutte noi sembrato identico a Santa Fe, con la variante della presenza di cowboys con la simpatica abitudine di fischiare ed urlare complimenti alla Babi ed ai suoi shorts.
Se l'incipit del viaggio aveva illuso Kamalita di poter deambulare, come di consueto, su zeppe di circa venti centimetri, il prosieguo dell'avventura l'ha però costretta ad indossare le tanto odiate scarpe da ginnastica che ora mi vuole rifilare e che in più circostanze l'hanno salvata in extremis da indimenticabili quanto potenzialmente uniche cadute da burroni e cime di montagne (“fucking red mountains that are the same everywhere and that we have in Nepal too”). In particolare, al Mesa Verde National Park, per seguire come agili caprette montane il ranger che ci faceva da guida, Kamalita ha finalmente capito che il tacco da passerella di Cannes non era raccomandabile, così come la biker biondiccia di fianco a me ha compreso che lo stivale in pelle marca Harley Davidson forse non è la scelta migliore in Colorado.
Il saggio antropologo, visitando i parchi nazionali, noterà come tratto comune e distintivo dei rangers sia un indistruttibile entusiasmo, un'inquietante propensione ad augurare buongiorno a cani e porci, la paresi facciale da sorriso pietrificato e la verosimile provenienza dall'Actor's Studio di New York, dove (è risaputo) prendono legioni di giovani americani decisamente troppo pieni di salute e con troppi denti bianchi e diritti e insegnano loro il mestiere di ranger.
In ogni caso, se passate dal Colorado, non perdetevi la visita a questo meraviglioso parco e fatevi fotografare assieme ai rangers: loro, a differenza del Naked Cowboy di Manhattan, non vi chiedernno una sostanziosa mancia per ogni scatto, ma sapranno dispensarvi saggi consigli sull'edera velenosa, sulle pietre focaie e sulle calzature montane. Se passate dal Colorado, però, la prima cosa alla quale dovete prestare attenzione è non imboccare MAI nessuna unpaved road, ovvero strada non asfaltata, piena di buche e di detriti di vario genere, come quella di venti miglia che le sospensioni della Desert Rose si ricorderanno per sempre. Si consiglia inoltre di non perdersi nottetempo e con il serbatoio pericolosamente sotto la metà, nel deserto Hopi, dove comunque gentilissimi indiani, squadrandovi come foste poveri dementi (e, se vi trovate in tali condizioni, lo siete davvero) si fermeranno per fornirvi le indicazioni necessarie per raggiunger il più vicino hotel, che è anche l'unico nel giro di 50 miglia.
A proposito di girare senza nessuna consapevolezza di dove ci si trovi, vorrei ricordare l'increscioso episodio del villaggio indiano, nel corso del quale il magico trio italo-nepalese e la Desert Rose si sono ritrovati inspiegabilmente sul cocuzzolo di una montagna piena zeppa di rifiuti di nativi (che un giorno verranno venduti come pregiati fossili), dove il comitato di accoglienza nel paesiello era composto da Toro Armato (di fucile), Toro Parcheggiatore (che ci ha gentilmente invitati a fare una u turn) e Toro Artigiano (dal quale, per salvare la pelle, la Babi ha acquistato per dieci dollari una prestigiosissima penna in legno con attaccata una piuma di qualche povero fagiano selvatico). Il saggio antropologo che volesse studiare queste popolazioni è caldamente invitato a predisporre la propria abitazione ad accogliere ingenti quantità di artigianato più o meno nativo, che potrà comunque riutilizzare come graziosi regali di natale.
Il Grand Canyon, successiva tappa e meta ambita da turisti di tutto il mondo, è senz'altro suggestivo (tranne che per Kamalita la quale, ormai stufa marcia di montagne rosse tutte uguali, ha messo in dubbio la suggestiva bellezza di queste quattro pietre rossicce), ma devo confessare che la visita a questo famosissimo parco lascia un vago ed inconfessabile senso di delusione, perché l'immagine che si è formata nella nostra testa a furia di documentari di Piero Angela e di sfondi per desktop, mischiandosi al mito dell'America lontana e selvaggia, ha circondato questo posto di aspettative troppo elevate.
La South Rim del grand Canyon è rossa, glabra ed aspra e credo che costituisca la prima forma di controllo della crescita della popolazione giapponese e di quella cinese: infatti, a giudicare dalla spaventosa massa umana asiatica che costantemente si può vedere affacciata sul ciglio del canyon, ben oltre le barriere protettive e in spregio di ogni segnale di pericolo, direi che i numerosi turisti cino-nipponici apportano un consistente contributo nello sfamare la fauna selvaggia che popola le sponde del Colorado River.
Mentre la parte meridionale del Grand Canyon pullula di turisti, la North Rim è un rifugio di tranquillità per chi vuole evadere dal caos turistico, e la tipica roccia rossa lascia qua e là il posto a zone e erbose e, addirittura, a boschi di betulle.
Non paghe di quelle che Kamalita si ostina a chiamare fucking red mountains, abbiamo quindi sconfinato nello Utah, alla volta del Bryce Canyon che, sebbene pullulasse di tamarri italiani, sorpassa in fascino e bellezza il più famoso Grand Canyon. Qui, mentre la piccola nepalese si ostinava a scattare foto surrealiste a soggetti totalmente privi di qualsiasi interesse, la Babi elaborava il lutto per la perdita della tanto amata agendina con i pin delle carte di credito, mentre io tentavo di contrastare la mia assoluta mancanza di senso dell'orientamento convincendo Kamalita di sapere benissimo dove stessimo andando.
Per infierire ulteriormente sulla nepalese provetta fotografa, la successiva tappa è consistita nell'ennesimo parco nazionale: il magnifico Zion National Park! Qui, mentre Kamalita portava avanti un'ardua astensione hindu da cibi e bevande nel caldo torrido dello Utah, io e la Babi abbiamo sfidato le rapide di un fiume e l'abbiamo guadato assieme a turisti smandrappati almeno quanto noi. L'unica cosa che ci ha impedito di oltrepassare una strettoia rocciosa prima di quello che si favoleggia essere un paradiso terrestre, è stata la nostra nanità, a causa della quale avrebbero probabilmente intitolato quella gola ventosa alla nostra memoria.
Colte da un inaspettato accesso di pietà, dopo giorni e giorni tra monti e rangers, abbiamo accolto la preghiera che Kamalita, con voce flebile e tremolante, muoveva da tempo dal sedile posteriore della Desert Rose (mai le è stato permesso di mettere a repentaglio con la sua guida asiatica le vite nostre e quelle di cowboy ed Harleysti della Route 66) e ci siamo così dirette alla volta di Las Vegas, la città del peccato, come la chiamano da queste parti. Dopo ore ed ore nel deserto del Nevada, dove si incontrano solo polvere, vento e silenzio, ecco apparire inaspettata Las Vegas, immensa macchia di luci all'orizzonte. Qui, infatti, ogni cosa è luminosa, anzi abbagliante: le insegne dei Motel (tutti con casino annesso), le slot machines onnipresenti, le riproduzioni in plastica e cartongesso di Venezia, i sorrisi vuoti delle prostitute, gli anelli d'oro dei papponi, le paillettes dei vestiti di turiste seminude. Di primo acchito, Las Vegas lascia a bocca aperta ed ipnotizza il viandante (a meno che il suddetto viandante non sia alla guida di una Corolla in mezzo a giganteschi Suv lanciati a settantacinque miglia orarie sulle strade a sei corsie del centro città) ma, al terzo losco figuro che cerca di rifilarti depliant di peep shows e gentlemen's club, Las Vegas inizia a farti un po' schifo. Poi, però, succede qualcosa di veramente pericoloso: ci si inizia ad assuefare a Sin City tanto che, una volta ritornati sulle strade desertiche del Nevada, il silenzio si fa assordante e la solitudine di essere l'unica macchina nel giro di miglia diventa difficile da sopportare.
Per non farci mancare niente, abbiamo a quel punto deciso di andare a caccia di ufo sull'Extraterrestrial Highway (che si chiama davvero così...viva l'America!), alla volta di Rachel, un piccolo paesino vicino alla famigerata Area 51, dove si crede siano custoditi inenarrabili segreti alieni. Ma arrivare a Rachel non è come dirlo. Questo minuscolo accampamento di case-camper-container non è presente sul gps, perché probabilmente un eccesso di zelo ha spinto qualche grande capoccia militare a coprire di mistero tutta questa zona; per raggiungere Rachel, quindi, si deve percorrere alla cieca un'infinita strada nel nulla, che si consiglia vivamente di affrontare con il serbatoio ben pieno di benzina...perché dopo quasi un'ora passata vagando nel nulla e vedendo il fuel level scendere pericolosamente, ha avuto inizio una gragnola di smadonnamenti nei miei confronti, sul tema “te e i tuoi fucking ufo di 'sta cippa”. Ma quando poi si arriva a Rachel, la soddisfazione è davvero tanta: innanzitutto, un'astronave finta svetta di fianco alla pittoresca locanda Little A'Le'Inn, unico esercizio commerciale della città; segnali raffiguranti ufo invitano al self parking, mentre dei burberi autoctoni, repubblicani fino al midollo ed usciti direttamente da un episodio di X-Files, accolgono più o meno gentilmente i pellegrini (tutti fan di Mulder e Scully), pur riservandosi il diritto di rifiutare il servizio a chiunque ritengano opportuno (Obamiani, omosessuali, vegan, capelloni, pacifisti?). Un'indigena mi si appropinqua inaspettatamente e, indecisa se sfoderare la pistola o raccontarmi la rava e la fava sul paesiello, grazie al cielo propende per la seconda opzione, rivelandomi che la vita è magnifica laggiù a Rachel, perché il panorama è strepitoso, la civiltà è a solo un'ora di polverosa strada di distanza e gli abitanti non sono mica così pochi: ben sessantaquattro, pardon, sessantadue dopo che due giovani sono fuggiti in qualche tristo college della provincia, pur di evadere da questa roccaforte di Sarah Palin&co.
Visto che siamo in Nevada e dobbiamo raggiungere in pochissimo tempo il New Mexico per impacchettare Kamalita e spedirla in Texas dal fidanzato, a tappe forzate visitiamo la bellissima Sedona, in Arizona, dove riusciamo pure ad avvistare una specie di lupo e io acquisto una tipica borsa made in India a forma di gatto e, il giorno dopo, la Petrified Forest, sempre in Arizona, dove dissuado Kamalita dall'asportare un tocco di legno pietrificato che le sarebbe costato l'amputazione della mano o la fucilazione in loco da parte di rangers-cecchini.
Il rush finale verso l'aeroporto è contraddistinto dall'onnipresente maledizione del fuso orario, che ci fa arrivare ad Albuquerque a soli quaranta minuti dal volo per Dallas. Infatti, nel corso dell'intero viaggio siamo rimaste sospese in una sorta di limbo dove il tempo aveva la stessa consistenza di una Big Bubble masticata, perché se cinque miglia prima erano le cinque del pomeriggio, cinque miglia più in là potevano essere le sei o, forse, le quattro. Ad emblema di questa follia tipicamente americana, basterà raccontare l'aneddoto del receptionist Navajo di Tuba City (posto nel quale mai mi sarei aspettata di alloggiare): interpellato dalla Babi sul mistero dell'ora in vigore, questo nativo cicciottello ci ha indicato la parete alle sue spalle che, per nostra somma sorpresa, presentava ben due orologi. Lì all'hotel erano le sette, ma se avessimo attraversato la strada, sarebbero state le otto, dal momento che la parte di Tuba City che sta dall'altra parte della highway è soggetta ad un differente fuso orario. Inutile dire che mi sembrava di essere nel film Il Seme della follia.
Una volta abbandonata Kamalita al suo destino, io e la Babi abbiamo perlustrato Albuquerque, riscontrando una piazza centrale identica a quella di Santa Fe e Taos, un numero infinito di negozietti con souvenir Navajo made in China, una zona residenziale dove sto pianificando di trascorrere la mia vecchiaia ed un accogliente parcheggio vicino al locale Walmart, presso il quale abbiamo passato una comodissima notte nella Desert Rose, in attesa del vole delle sette.
Il ritorno nella troppo affollata New York è stato, inevitabilmente, traumatico e credo che ci vorrà un mesetto o più prima di riabituarmi ad incrociare più di cinque persone per miglio.

domenica 31 luglio 2011

Fantozzi d'oltreoceano

Ero già pronta, canottiera bianca e frittata vegan di cipolle alla mano, a gustarmi il mio giorno libero all'insegna del più bieco e gretto fancazzismo, magari con una bella gara di rutto libero con i miei fucking roommates, da disputarsi da un piano all'altro (ognuno di noi rigorosamente disteso nel proprio letto, in un tripudio di ozio e torpore)...quando ecco il ragionier Filini americano chiamare e distruggere i nostri migliori progetti per il day off.
Il pic nic aziendale pendeva sulle nostre teste, pronto a caderci addosso da un momento all'altro, nonostante i nostri strenui tentativi di ignorarlo. E alla fine, ovviamente, ci è cascato addosso a peso morto, annichilendo i sorrisi beoti sulle nostre belle faccette straniere.
Il pic nic aziendale, infatti, è qualcosa che, quaggiù, va preso sul serio, dannatamente sul serio.
Dopo una ridicola serie di telefonate tra capi, tutor e colleghi vari, eccoci quindi schizzare giù dai nostri cari lettini alle ore sei-punto-trenta del mattino, con il classico occhio trigliato della privazione di sonno e le pieghe del cuscino ancora stampate in faccia. Eccoci poi smadonnare nei nostri idiomi natii e cercare di ingurgitare ciò che tradizionalmente assimiliamo per colazione secondo i nostri costumi nazionali: io caffè bollente e super zuccherato, Kamalita cereali a secco, Bas tre tonnellate di Nutella su una minuscola fettina di pane. Ecco me e Kamalita cercare di arrancare a fatica sulla gigantesca jeep di Bas, mentre il suddetto dutch roomate ci incita in malo modo a muoverci perché, ovviamente, siamo in ritardo.
Una volta raggiunto il punto di ritrovo, veniamo stipati in un furgoncino puzzolente dove, come al solito, siamo i più pallidi della compagnia e dove, come al solito, veniamo sfottuti per il nostro accento esotico.
Dopo quasi due ore di viaggio, finalmente raggiungiamo il punto x: un parco dove l'americano medio può grigliare qualsiasi essere vivente popoli la terra della libertà (opossum, bisonti, marmottine, cervi, immigrati irregolari), nuotare senza cuffia spargendo capelli biondicci nell'acqua superclorata, affittare una sorta di pedalò che, essendo noi nel paese più pigro del globo, è ovviamente a motore, oppure inseguire qualche giovincella sprovveduta, farla a pezzi e nasconderla nel frigorifero portatile...del resto, questa è pur sempre la nazione con la più elevata densità di serial killers.
Il pic nic aziendale è qualcosa in cui non vorresti mai imbatterti e che non augureresti mai nemmeno al tuo peggior nemico, nemmeno a quell'amabile individuo che mi ha gibollato la macchina in un parcheggio di Poughkeepsie. Persone esageratamente sovrappeso sudano sul barbecue, mentre gruppetti di colleghi sono impegnati in orridi giochi organizzati dal team pic nic, attività alle quali prendono parte unicamente per motivi veniali: in palio ci sono delle carte di credito prepagate da 25 dollari. Appuro con disappunto che gli spiedini con le verdure sono crudi, mentre, sebbene gigantesche parti di animale arrostiscano ovunque, la massa dei colleghi si lamenta della penuria di carne: ma che si aspettavano, un intero branco di mammuth alla griglia?
Il momento più toccante della giornata si raggiunge quando vengono distribuite le pergamene di ringraziamento ed encomio per managers e semplici dipendenti. Mentre siamo intenti a preparare il nostro miglior sorriso ed un abbozzo di discorso da snocciolare al momento della nostra premiazione, assistiamo al corteo di colleghi e capi che, tra gli applausi generali, si recano a ritirare il papello. Siccome siamo dei losers e ce l'abbiamo pure stampato in faccia, io, Bas e Kamalita siamo gli unici a non ricevere manco una pacca sulla spalla, nemmeno una penna con il logo dell'agency, nemmanco un post it con sopra scritto “thank you” e magari i nomi sbagliati.
Dal momento che non c'è nemmeno una goccia di alcol nella quale annegare il nostro immenso dispiacere e la vergogna per non avere ottenuto la famigerata pergamena, ognuno di noi affronta il dolore secondo la propria indole: Kamalita con una telefonata fiume al fidanzato in Texas, Bas partecipando ad un trucido giochino aziendale con le mie colleghe tettone, io mangiando quintalate di patatine attingendo contemporaneamente da due pacchetti diversi.
Durante il viaggio di ritorno, tutti i nostri colleghi contemplano la propria bella pergamena, Kamalita parla ancora al telefono sparando parole alla velocità della luce, io elaboro in silenzio il lutto per la fine dei pacchetti di patatine, mentre Bas guida il furgoncino aziendale come se fosse nel bel mezzo di un film di Indiana Jones.
La giornata si conclude con eventi emblematici della nostra essenza da losers: mentre torniamo verso Kingston sulla jeep, Bas ha la geniale idea di fermarsi lungo la strada per imbottigliare una specie di acqua miracolosa che si dice sgorghi direttamente dalle sorgenti sotterranee, ma che si presenta come del liquido non tanto pulito scaturente da orridi tubi di plastica. Una volta imbottigliata l'acqua santa, i miracoli iniziano a pioverci addosso, perché i freni della macchina si sputtanano improvvisamente quanto inspiegabilmente, obbligandoci a guidare fino a casa sgommando col freno a mano in concomitanza di semafori e stop, fino al meccanico sotto casa, che per soli 305 dollari aggiusterà il jeeppone.
Infine, ci tocca assistere all'ennesimo concerto fuffa a New Paltz, tenuto da uno sbarbatello locale col capello ribelle, che termina a tradimento mentre mi allontano tre minuti a procacciarmi della caffeina nel vicino Starbucks. E pensare che io detesto Starbucks.


giovedì 21 luglio 2011

Mai far cadere la bandiera!

Seduta sulla veranda di una casa un po' fatiscente, nella parte peggiore di una delle peggiori vie di Kingston, Genova mi sembra lontana, quasi l'avessi vista in un sogno.
Eppure, a dieci anni di distanza, mi pare che il tempo sia meno pesante di quanto dovrebbe, perché davvero, se chiudo gli occhi, rivedo, vividi e per nulla sbiaditi, le centinaia di fermi immagine di quella lunghissima giornata genovese.
Scatto n°1: l'alba. Sono io che arranco, con ancora il cuscino stampato in faccia, verso la fermata del pullman che mi porterà a Milano, perché vivo ancora in provincia di Como. Indosso un'orrida maglietta della Onyx, per la quale il Bado mi sbeffeggia ancora a distanza di una decade...a mia discolpa, posso dire che, come al solito, avevo dimenticato di fare il bucato e non c'era nient'altro di pulito.
Scatto n°2: il Biasoli che mi guarda con la faccia pallida pallida. Siamo in viaggio sul treno Milano-Genova. Fa caldo e si va lenti. Con la testa fuori dal finestrino, cerchiamo di capire dove siamo.
Si scherza e si inveisce contro le ferrovie italiane, ma tutti, in realtà, si ha una fottuta paura dello scenario da guerriglia urbana che ci aspetta. Veniamo in pace, mi dico, quindi siamo tranquilli.
Ma perché non ho portato l'elmetto che il giorno prima qualche amico voleva rifilarmi?
Scatto n°3: la folla. Arrivati a Genova, una folla immensa, colorata, chiassosa sta invadendo i vicoli della città. Noi siamo felici di essere arrivati e il Biasoli mi pare meno pallido. La gente sorride e noi sorridiamo di rimando, mentre dai balconi anziani pensionati salutano e gettano acqua per rinfrescare i manifestanti nel caldo torrido dell'estate genovese.
Scatto n°4: la bandiera per terra. Ci rimproverano perché la bandiera non si fa mai cadere, anche se stai scappando a gambe levate, anche se le mani ti tremano dalla paura e negli occhi hai solo la disperata ricerca della via di fuga migliore. Ma perché scappiamo? Ricordo polizia ovunque, gente che grida, gente che corre, gente che cade ed una signora con la testa piena di sangue: a quanto pare, i manganelli se ne fregano delle casalinghe sessantenni.
Noi, per paura di una carica, abbiamo iniziato a correre e da allora so perfettamente come si sente un branco di zebre o gazzelle quando un predatore irrompe nelle ampie distese della savana. Vengo in pace, io, ma forse non interessa quaggiù. La bandiera l'abbiamo fatta cadere perché ci ostacola la fuga, ma la prossima volta la terremo più alta, di modo che i predatori sappiano bene chi siamo e che, come dicono quaggiù, non siamo chickenshit, cioè dei codardi.
Scatto n°5: i black block. Genova è blindata, nessuno può introdurre veicoli di nessun tipo, ma ecco spuntare un furgoncino dei famigerati black block. Chi li ha fatti passare? Quello che sta succedendo è chiaro e cristallino: la folla isola i violenti, ma loro hanno accesso al cuore della manifestazione. Io vengo in pace e non voglio che le mie ragioni vengano lordate dai loro sanpietrini e dai loro distintivi ben nascosti nei portafogli.
Scatto n°6: elicotteri sopra, mare a destra, montagne con cecchini a sinistra, asfalto bollente sotto ai piedi. Niente vie di fuga. Qualche giorno fa, ho letto che un amico, a distanza di anni, ogni volta che sente un elicottero volare basso inizia a percepire la paura salirgli dalle punta delle dita ed arrivare dritta al petto. Del resto, per mesi ho sobbalzato alla vista di un poliziotto e, se potevo, cambiavo strada. La mano che abbiamo armato per proteggerci è la stessa mano che ci ha massacrati a Genova.
Scatto n°7: ancora lo scompartimento di un treno. Si torna a casa! Abbiamo la nostra bandiera, non le abbiamo prese, abbiamo cantato, ballato e gridato che la gente vuole farsi sentire, che non si può calpestare i diritti dei più deboli nel silenzio generale, che questo globo accidentato e disperso nell'universo non può restare per sempre in balia di un manipolo di prepotenti. Siamo felici.
Scatto n°8: l'autoradio. Torniamo in macchina dalla stazione centrale di Milano e alla radio raccontano quello che sta succedendo alla scuola Diaz. Mi viene da piangere.
Ci hanno lasciati tornare a casa, ci hanno fatto svuotare le strade e le piazze dei nostri colori per poter agire indisturbati, perché non ci fossero occhi indiscreti che li vedessero ridipingere col sangue le pareti della Diaz, né orecchie che sentissero i lamenti delle persone rinchiuse a Bolzaneto.
Un immenso senso di impotenza, di ingiustizia, di rabbia invade l'abitacolo della macchina.
Mia madre mi chiama per assicurarsi che io non sia laggiù, nell'inferno di Genova. In questo stesso momento, quante altre madri staranno chiamando, invano, cellulari dispersi tra cocci di vetro e chiazze di sangue?
Il giorno dopo, nessuno parla davanti alle immagini delle persone torturate, massacrate. E io penso: quei poliziotti che hanno spaccato teste ed ossa di persone inermi, cosa avranno mai raccontato alla famiglia, al ritorno dal lavoro?
A distanza di dieci anni i sentimenti non sono cambiati e, se ripenso alla casalinga manganellata, mi vengono ancora i lucciconi agli occhi. Ma ho fatto progressi, perché da allora corro più veloce, non ho mai più fatto cadere una bandiera e, nonostante quell'orrore e quella violenza, il mio vessillo è sempre dipinto con i colori della pace.

sabato 16 luglio 2011

Perché pagare la Time Warner Cable

La vita in provincia riluce di brio e vivacità. Specialmente di sera.
La misura di quanto ce la si spassi a due ore dalla Grande Mela è data dall'inaspettato e direi quasi imbarazzante successo riscosso dai fuochi d'artificio e dalla (fake) Italian festa.
La sera del fireworks festival qui a Kingston sembrava di essere ad un concerto dei Take That negli anni 90: c'era gente urlante ovunque e trovare parcheggio vicino casa è stato assai più complesso che nel centro di Milano. Le persone che si potevano incrociare durante l'evento non erano affatto comuni, perché la cittadina trasudava individui mai visti nemmeno al Wal Mart e probabilmente usciti per l'occasione dalle proprie nicchie ecologiche sotterranee, belli impomatati e vestiti come per la messa della domenica, tanto sgargianti e rari che avrebbero lasciato basito persino il più saggio dei saggi antropologi capitato per caso a Kingston.
Con l'esperienza abbiamo infatti imparato che i fuochi d'artificio fungono da richiamo per l'americano della provincia che, munito di seggiolina pieghevole, accorre con incomprensibile entusiasmo, muovendo grandi quantità di adipe e sgomitando per avere un posto sul lungofiume, molto prima che il crepuscolo sia calato sul Rondout Creek.
L'agglomerato umano che ti si para davanti per l'occasione ti insegna che l'americano provinciale non è solo il bravo impiegato IBM con moglie e figli biondi a seguito e la stars and stripes appesa fuori casa: i fireworks uniscono tutta la variegata fauna che popola l'Ulster County, mostrandoci gli unici tre punk acneici della contea, seduti di fianco ad un'obesissima signora di colore che nasconde il chihuahua nel generoso décolleté; una madre teenager che insegue il pargolo (tamarro già in fasce) su delle zeppe da danzatrice di lap dance, urlando a squarciagola; cinquantenni tutti tatuati che ingurgitano quantità senza senso di ali di pollo fritte, annaffiandole con orrida birra annacquata, perché – attenzione! - solo durante la festa del paese e i fuochi d'artificio è consentito bere al di fuori dei bar, esibendo con compiacimento lattine e bicchieri, senza bisogno di dover nascondere la sostanza incriminata in sacchetti di carta, dei quali, comunque, tutti conoscono il contenuto.
I fuochi del festival, in realtà, facevano abbastanza pietà, nonostante il buon fuocaiolo abbia tentato di tenere alta la tensione sparandone uno ogni dodici minuti, per circa un'oretta.
L'unico pregio dell'esibizione è consistito nel gigantismo, nel pleonasmo pirotecnico, nella pacchiana opulenza di sbrilluccichii e colori, perché qui in America ogni cosa dev'essere oversize, XXL, iper e, più grande ed appariscente è, meglio è...non importa se il contenuto latiti...
Alla fine del festival, l'americano della provincia si ritira mestamente nella propria dimora, portandosi appresso la famigliola più o meno tatuata e più o meno lap dancer, ed intasando con un traffico mai visto ogni strada di Kingston, anche la più remota e negletta.
Noi, altrettanto mestamente, abbiamo fatto ritorno nel nostro ghetto, sperando, almeno per questa sera, di non assistere a nessuna rissa tra vicini e di non ritrovare nessun preservativo usato sulla nostra tettoia.
Per quanto concerne la (fake) Italian Festa a New Paltz, posso solo dire che il saggio antropologo avrebbe faticato parecchio a trovare anche un minimo briciolo di italianità laggiù, dato che, a parte me e La Babi, le cosa più italiana era una statua di Sant'Antonio made in China e delle sfogliatelle transgeniche, ripiene di una sconosciuta sostanza rosea e gelatinosa.
Il principale problema della provincia è, a mio avviso, il fatto che chiunque tu incontri, giallo, nero, bianco, rosso o marroncino, si vanti di essere italiano, perché nel proprio albero genealogico annovera un antenato nato nel Bel Paese e poco importa se costui sia deceduto un paio di secoli fa, se non si conosca nemmeno mezzo vocabolo di italiano, se l'unica pasta conosciuta sia quella che vendono in lattina da Stop and Shop o se il tatuaggio che si sfoggia vicino all'ombelico riporti una frase sgrammaticata in italiano: l'importante è sentirsi pronti a prendere parte a Jersey Shore da protagonisti!
Siccome l'americano della provincia vuole darsi un tono internazionale, restando comunque ben ancorato alle proprie radici, di fianco a pseudo-calzoni ripieni di pseudo-mozzarella e ad Italian ice variopinto (che non è granita, bensì ghiaccio tritato irrorato con sciroppo chimico) venivano prodotti a quintalate hot dogs e french fries, mentre in sottofondo una band composta da musicisti ottuagenari e da una casalinga del Kentucky come lead vocalist inondava l'area della festa con musica country, sul tema “ti ho amata tanto e ancora ti amo, sebbene tu sia fuggita con un altro cowboy”. L'apice della serata si è raggiunto quando il repertorio country è stato contaminato con quello dei Beach Boys ed è partito un trenino di studenti giapponesi ubriachi marci, che ha messo per un attimo in ombra la coppia di vecchini impegnati in un fox trot riadattato in chiave country.
Da queste poche righe, il saggio antropologo non può che trarre una sola conclusione: la tv via cavo ha salvato generazioni e generazioni di non autoctoni dal supplizio della vita notturna in provincia. Ed è per questo che ogni mese paghiamo senza batter ciglio i 114 dollari di Time Warner Cable, che ci permettono di poter sopravvivere alla movimentata vita notturna all'ombra della City.