sabato 24 settembre 2011

Morire in America

Non ho mai visto New York City così cupa, grigia e silenziosa come l'undici settembre.
Le strade, svuotate di macchine e yellow cabs, sono color piombo e blu polizia, mentre, a seconda della zona di Manhattan nella quale ci si trovi, i marciapiedi strabordano di turisti e cittadini con facce contrite e smunte, di pompieri di origine irlandese palesemente ubriachi fradici e ammassati all'ingresso di qualche Irish pub, di venditori di bandierine americane (made in China), di strani personaggi che arringano piccoli capannelli di gente sulle proprie teorie esplicative della tragedia delle torri gemelle e di visitatori delusi per la mancata apertura al pubblico dell'area di Ground Zero. E, infatti, se non sapessi di essere in America, potrei benissimo credere di trovarmi di fronte all'ennesimo eterno lavoro in corso nostrano perché, dopo dieci anni, l'area dove sorgeva il World Trade Center è ancora un cantiere aperto, nel quale centinaia di operai latinoamericani lavorano ogni giorno, alcuni anche in quest'undici settembre.
Camminando, ci si imbatte in cancellate piene zeppe di nastri bianchi legati alle inferriate, sui quali parenti ed amici delle vittime o semplici passanti hanno voluto scrivere preghiere o ricordi.
Il piccolo museo dedicato alla tragedia è gremito di gente e, per una buona metà, è stato invaso da uno squallido negozio che vende cimeli sull'undici settembre, perlopiù made in China.
Ci sono bandiere a stelle e strisce in ogni dove: a drappeggiare palazzi, chiese, cimiteri, persone, a far sentire l'America unita nel ricordo delle circa tremila persone morte negli attentati.
Il solito saggio antropologo noterà che, per attivare la modalità “patriota” nell'americano medio, basta sventolare una Star-Spangled Banner bella inamidata, magari mettendo in sottofondo l'inno nazionale cantato da qualche bambino particolarmente dotato. Non voglio sminuire l'impatto dell'undici settembre, perché credo che il dolore causato da quelle perdite vada profondamente rispettato e perché mi ricordo l'espressione della mia collega mentre ci raccontava di aver perso un amico in una delle torri o del mio professore d'inglese quando ci ha parlato di un suo cugino,, impiegato al Pentagono salvatosi per un caso fortuito. Quello che voglio dire è che è troppo facile ridurre il campo visivo di questa nazione, perché nessuno qui sa nulla delle tragedie che quotidianamente accadono in parti del mondo delle quali si ignora addirittura l'esistenza e perché, senza andare troppo lontano, a Manhattan non ho visto nemmeno il minimo accenno alla silenziosa tragedia di chi, a causa delle esalazioni sprigionate dal crollo degli edifici, sta combattendo ogni giorno la propria personale e dimenticata battaglia contro fibrosi polmonare o cancro. A costoro, poliziotti, pompieri, operai impegnati nella rimozione delle macerie, e ai familiari di chi nel corso del tempo è stato stroncato dalla malattia, dopo quasi dieci anni di controversie giudiziarie (pagate dalle vittime, of course) è stato riconosciuto un risarcimento decisamente inferiore alle richieste e vincolato alle migliaia di cavilli ed ostacoli con cui le assicurazioni sanitarie quotidianamente rendono il diritto alla salute un concetto quaggiù pressoché sconosciuto. Probabilmente, alle vite di queste persone viene attribuito un valore minore, in virtù del minor “impatto simbolico” delle loro esistenze o della minore copertura mediatica.
A proposito di clamore, qualche giorno fa le prime pagine di tutti i giornali erano dedicate al caso di Troy Davis, la cui condanna a morte è stata eseguita dopo due decenni passati in carcere.
Grazie alla mobilitazione internazionale ed alla battaglia della famiglia di Davis, anche l'americano medio, tra una pasto da Kentucky Fried Chicken ed un pellegrinaggio al Wal Mart, conosceva (più o meno a grandi linee) i contorni della vicenda. Sebbene il peso della vita di quest'uomo si sia alla fine rilevato meno consistente del peso delle prossime elezioni ed Obama abbia fatto finta di niente (playin' possum, come dicono da queste parti, cioè fingersi morto come l'opossum in situazioni di pericolo), fischiettando gaiamente mentre i boia facevano il loro tristo mestiere, l'eco della storia di Troy Davis è inaspettatamente risuonato anche qui nella provincia newyorkese. Da una conversazione mattutina con una collega, ho infatti toccato con mano quanto la comunità afroamericana della ridente contea dove lavoro sia rimasta scossa dalla vicenda e questo, credo, per due ragioni fondamentali: i dubbi relativi ai motivi razziali alla base dell'incriminazione sono qui ampiamente condivisi (il 99% dei poliziotti da me incrociati nel corso degli ultimi sette mesi è bianco) e, inoltre, tutti quelli che conosco hanno o hanno avuto un congiunto in carcere (generalmente per droga o furto d'auto, ma spesso anche per aggressione ed altri reati violenti), cosa che rende sensibili rispetto all'esperienza di Davis.
Inutile dire che, tra una settimana, qui in provincia non si parlerà più di Troy Davis perché, anche se il peso della sua morte qui è forse più grande che altrove, ci sono di volta in volta altri morti da commemorare: settimana scorsa si trattava di un ragazzo pugnalato a morte un anno fa nella via dove lavoro, per il cui anniversario gli amici hanno acceso lumini e portato palloncini colorati sul luogo dell'omicidio; due giorni fa era un uomo ucciso a colpi di pistola nella via parallela.
Ammetto di non essere curiosa di sapere a chi toccherà essere ricordato la prossima settimana.


mercoledì 14 settembre 2011

On the road

Credo che nemmeno gli Inuit abbiano coniato un vocabolo adatto a descrivere il freddo becco e paralizzante che abbiamo patito durante l'interminabile notte all'aeroporto di La Guardia. Per quanto tentassi di visualizzare immagini di cibi/bevande/posti/oggetti caldi, sentivo le mie ossa scricchiolare per il gelo come rametti rattrappiti da un'inattesa gelata, che nemmeno l'ologramma della minestrina del malatino avrebbe potuto sconfiggere. È un dato di fatto: gli americani hanno una patologica fissazione per l'aria condizionata e, quando credi di esserti finalmente messo in salvo dall'antartide aeroportuale e ti accingi a salutare con la manina bluastra gli orsi bianchi e gli intirizziti shoe shiner (sì: purtroppo esiste ancora qualcuno che si fa lucidare le scarpe!), ti accorgi che la ruota della fortuna non ha alcuna intenzione di girare a tuo favore e che il viaggio in alta quota si trasforma in un'altra tappa di questa ghiacciolosa via crucis, dove solo i ladroni della business class hanno diritto alla copertina di plaid.
Dopo cinque ore di volo da New York ad Albuquerque, con scalo a Dallas, a stento riusciamo a muoverci per gli stenti patiti, ma siamo felici. Guardandoci attorno, viene da chiederci “chi cacchio scenderà mai ad Albuquerque, oltre a noi?”. Semplice: ricettatori di macchine rubate, indiani nativi, cowboys, messicani, tamarri. Grazie al cielo, nessun italiano!
La scelta di questo luogo è stata dettata dalla sua posizione strategica rispetto alle zone che intendiamo visitare, dal prezzo economico (per forza: chi cacchio vuole andare ad Albuquerque?) e dalla forza delle coincidenze e del fato che, mentre eravamo in procinto di prenotare un volo per Tucson o Phoenix, si è palesata con una telefonata di Amber, una sconosciuta parrucchiera di New York in fissa con gli indiani, ad annunciare lo svolgimento di un'ambitissima cerimonia Apache di guarigione proprio ad Albuquerque e proprio nei giorni in cui avremmo dovuto prendere il volo di ritorno. Siccome non si può sputare in faccia al destino, abbiamo quindi gonfiato le nostre vele in direzione del New Mexico. Inutile dire che, sempre a causa del fato, alla fine abbiamo bigiato la famigerata cerimonia, preferendo tenerci tutti i nostri più disparati acciacchi.
Una volta arrivate ad Albuquerque, abbiamo prelevato la macchina in affitto prenotata on line insieme al volo e, nonostante i miei strenui tentativi di scegliere un gippone che il Bas Bloom mi avrebbe invidiato per il resto dei suoi giorni, l'indole lungimirante della Babi ci ha convinte ad optare per una più sobria Toyota Corolla, da me ribattezzata Desert Rose. Inutile dire che, nonostante il pomposo nome, nel giro di mezz'ora la povera Corolla era già ridotta peggio di una discarica di Calcutta, grazie a carta straccia, pacchetti semivuoti di patatine fritte, vestigia di poveri insetti spiaccicati sul paraurti (per la cui uccisione pagherò da qui ai prossimi cinque anni in termini di bad kharma), cibo nepalese putrefatto, sabbia rossa del deserto e, colpo di grazia, galloni e galloni di acqua che forse non si asciugherà mai, rovesciati a ripetizione dall'incauta Kamalita, regina dei tappi male avvitati.
Questo memorabile pellegrinaggio keruacchiano nel far west, lungo 2800 e più polverose miglia, ha avuto come prima tappa la fighettissima Santa Fe, capitale del New Mexico e punto di riferimento per signore attempate e rifatte (ma con classe), anonime folle con velleità artistiche e nativi americani con tanto di patentino d'autenticità impegnati nello strenuo tentativo di vendere graziosi gioielli in rame o abominevoli patacche a turisti più o meno sprovveduti. Siccome noi apparteniamo a questa seconda categoria, Kamalita ha ben pensato di acquistare un originalissimo braccialetto da una pingue pseudo indiana, alla gioiosa cifra di venti dollari. Colgo qui l'occasione per suggerire al saggio antropologo di dedicare un minuzioso studio alla propensione nepalese per lo shopping compulsivo, causa, nel corso del viaggio, dell'acquisto di un altro braccialetto taumaturgico in rame contro i reumatismi (made in India), di una collana in pietre rosse plasticose (paese d'origine supposto: Cina), di una maglietta con la scritta “I love Las Vegas” (anch'essa made in China), di una penna (cinese) della Mesa Verde e di una maglietta (questa made in Nicaragua) del Grand Canyon.
Vicino a Santa Fe sorge il ridente villaggio di Taos che, visitato di prima mattina e nel corso di una disperata ricerca di public restrooms, è a tutte noi sembrato identico a Santa Fe, con la variante della presenza di cowboys con la simpatica abitudine di fischiare ed urlare complimenti alla Babi ed ai suoi shorts.
Se l'incipit del viaggio aveva illuso Kamalita di poter deambulare, come di consueto, su zeppe di circa venti centimetri, il prosieguo dell'avventura l'ha però costretta ad indossare le tanto odiate scarpe da ginnastica che ora mi vuole rifilare e che in più circostanze l'hanno salvata in extremis da indimenticabili quanto potenzialmente uniche cadute da burroni e cime di montagne (“fucking red mountains that are the same everywhere and that we have in Nepal too”). In particolare, al Mesa Verde National Park, per seguire come agili caprette montane il ranger che ci faceva da guida, Kamalita ha finalmente capito che il tacco da passerella di Cannes non era raccomandabile, così come la biker biondiccia di fianco a me ha compreso che lo stivale in pelle marca Harley Davidson forse non è la scelta migliore in Colorado.
Il saggio antropologo, visitando i parchi nazionali, noterà come tratto comune e distintivo dei rangers sia un indistruttibile entusiasmo, un'inquietante propensione ad augurare buongiorno a cani e porci, la paresi facciale da sorriso pietrificato e la verosimile provenienza dall'Actor's Studio di New York, dove (è risaputo) prendono legioni di giovani americani decisamente troppo pieni di salute e con troppi denti bianchi e diritti e insegnano loro il mestiere di ranger.
In ogni caso, se passate dal Colorado, non perdetevi la visita a questo meraviglioso parco e fatevi fotografare assieme ai rangers: loro, a differenza del Naked Cowboy di Manhattan, non vi chiedernno una sostanziosa mancia per ogni scatto, ma sapranno dispensarvi saggi consigli sull'edera velenosa, sulle pietre focaie e sulle calzature montane. Se passate dal Colorado, però, la prima cosa alla quale dovete prestare attenzione è non imboccare MAI nessuna unpaved road, ovvero strada non asfaltata, piena di buche e di detriti di vario genere, come quella di venti miglia che le sospensioni della Desert Rose si ricorderanno per sempre. Si consiglia inoltre di non perdersi nottetempo e con il serbatoio pericolosamente sotto la metà, nel deserto Hopi, dove comunque gentilissimi indiani, squadrandovi come foste poveri dementi (e, se vi trovate in tali condizioni, lo siete davvero) si fermeranno per fornirvi le indicazioni necessarie per raggiunger il più vicino hotel, che è anche l'unico nel giro di 50 miglia.
A proposito di girare senza nessuna consapevolezza di dove ci si trovi, vorrei ricordare l'increscioso episodio del villaggio indiano, nel corso del quale il magico trio italo-nepalese e la Desert Rose si sono ritrovati inspiegabilmente sul cocuzzolo di una montagna piena zeppa di rifiuti di nativi (che un giorno verranno venduti come pregiati fossili), dove il comitato di accoglienza nel paesiello era composto da Toro Armato (di fucile), Toro Parcheggiatore (che ci ha gentilmente invitati a fare una u turn) e Toro Artigiano (dal quale, per salvare la pelle, la Babi ha acquistato per dieci dollari una prestigiosissima penna in legno con attaccata una piuma di qualche povero fagiano selvatico). Il saggio antropologo che volesse studiare queste popolazioni è caldamente invitato a predisporre la propria abitazione ad accogliere ingenti quantità di artigianato più o meno nativo, che potrà comunque riutilizzare come graziosi regali di natale.
Il Grand Canyon, successiva tappa e meta ambita da turisti di tutto il mondo, è senz'altro suggestivo (tranne che per Kamalita la quale, ormai stufa marcia di montagne rosse tutte uguali, ha messo in dubbio la suggestiva bellezza di queste quattro pietre rossicce), ma devo confessare che la visita a questo famosissimo parco lascia un vago ed inconfessabile senso di delusione, perché l'immagine che si è formata nella nostra testa a furia di documentari di Piero Angela e di sfondi per desktop, mischiandosi al mito dell'America lontana e selvaggia, ha circondato questo posto di aspettative troppo elevate.
La South Rim del grand Canyon è rossa, glabra ed aspra e credo che costituisca la prima forma di controllo della crescita della popolazione giapponese e di quella cinese: infatti, a giudicare dalla spaventosa massa umana asiatica che costantemente si può vedere affacciata sul ciglio del canyon, ben oltre le barriere protettive e in spregio di ogni segnale di pericolo, direi che i numerosi turisti cino-nipponici apportano un consistente contributo nello sfamare la fauna selvaggia che popola le sponde del Colorado River.
Mentre la parte meridionale del Grand Canyon pullula di turisti, la North Rim è un rifugio di tranquillità per chi vuole evadere dal caos turistico, e la tipica roccia rossa lascia qua e là il posto a zone e erbose e, addirittura, a boschi di betulle.
Non paghe di quelle che Kamalita si ostina a chiamare fucking red mountains, abbiamo quindi sconfinato nello Utah, alla volta del Bryce Canyon che, sebbene pullulasse di tamarri italiani, sorpassa in fascino e bellezza il più famoso Grand Canyon. Qui, mentre la piccola nepalese si ostinava a scattare foto surrealiste a soggetti totalmente privi di qualsiasi interesse, la Babi elaborava il lutto per la perdita della tanto amata agendina con i pin delle carte di credito, mentre io tentavo di contrastare la mia assoluta mancanza di senso dell'orientamento convincendo Kamalita di sapere benissimo dove stessimo andando.
Per infierire ulteriormente sulla nepalese provetta fotografa, la successiva tappa è consistita nell'ennesimo parco nazionale: il magnifico Zion National Park! Qui, mentre Kamalita portava avanti un'ardua astensione hindu da cibi e bevande nel caldo torrido dello Utah, io e la Babi abbiamo sfidato le rapide di un fiume e l'abbiamo guadato assieme a turisti smandrappati almeno quanto noi. L'unica cosa che ci ha impedito di oltrepassare una strettoia rocciosa prima di quello che si favoleggia essere un paradiso terrestre, è stata la nostra nanità, a causa della quale avrebbero probabilmente intitolato quella gola ventosa alla nostra memoria.
Colte da un inaspettato accesso di pietà, dopo giorni e giorni tra monti e rangers, abbiamo accolto la preghiera che Kamalita, con voce flebile e tremolante, muoveva da tempo dal sedile posteriore della Desert Rose (mai le è stato permesso di mettere a repentaglio con la sua guida asiatica le vite nostre e quelle di cowboy ed Harleysti della Route 66) e ci siamo così dirette alla volta di Las Vegas, la città del peccato, come la chiamano da queste parti. Dopo ore ed ore nel deserto del Nevada, dove si incontrano solo polvere, vento e silenzio, ecco apparire inaspettata Las Vegas, immensa macchia di luci all'orizzonte. Qui, infatti, ogni cosa è luminosa, anzi abbagliante: le insegne dei Motel (tutti con casino annesso), le slot machines onnipresenti, le riproduzioni in plastica e cartongesso di Venezia, i sorrisi vuoti delle prostitute, gli anelli d'oro dei papponi, le paillettes dei vestiti di turiste seminude. Di primo acchito, Las Vegas lascia a bocca aperta ed ipnotizza il viandante (a meno che il suddetto viandante non sia alla guida di una Corolla in mezzo a giganteschi Suv lanciati a settantacinque miglia orarie sulle strade a sei corsie del centro città) ma, al terzo losco figuro che cerca di rifilarti depliant di peep shows e gentlemen's club, Las Vegas inizia a farti un po' schifo. Poi, però, succede qualcosa di veramente pericoloso: ci si inizia ad assuefare a Sin City tanto che, una volta ritornati sulle strade desertiche del Nevada, il silenzio si fa assordante e la solitudine di essere l'unica macchina nel giro di miglia diventa difficile da sopportare.
Per non farci mancare niente, abbiamo a quel punto deciso di andare a caccia di ufo sull'Extraterrestrial Highway (che si chiama davvero così...viva l'America!), alla volta di Rachel, un piccolo paesino vicino alla famigerata Area 51, dove si crede siano custoditi inenarrabili segreti alieni. Ma arrivare a Rachel non è come dirlo. Questo minuscolo accampamento di case-camper-container non è presente sul gps, perché probabilmente un eccesso di zelo ha spinto qualche grande capoccia militare a coprire di mistero tutta questa zona; per raggiungere Rachel, quindi, si deve percorrere alla cieca un'infinita strada nel nulla, che si consiglia vivamente di affrontare con il serbatoio ben pieno di benzina...perché dopo quasi un'ora passata vagando nel nulla e vedendo il fuel level scendere pericolosamente, ha avuto inizio una gragnola di smadonnamenti nei miei confronti, sul tema “te e i tuoi fucking ufo di 'sta cippa”. Ma quando poi si arriva a Rachel, la soddisfazione è davvero tanta: innanzitutto, un'astronave finta svetta di fianco alla pittoresca locanda Little A'Le'Inn, unico esercizio commerciale della città; segnali raffiguranti ufo invitano al self parking, mentre dei burberi autoctoni, repubblicani fino al midollo ed usciti direttamente da un episodio di X-Files, accolgono più o meno gentilmente i pellegrini (tutti fan di Mulder e Scully), pur riservandosi il diritto di rifiutare il servizio a chiunque ritengano opportuno (Obamiani, omosessuali, vegan, capelloni, pacifisti?). Un'indigena mi si appropinqua inaspettatamente e, indecisa se sfoderare la pistola o raccontarmi la rava e la fava sul paesiello, grazie al cielo propende per la seconda opzione, rivelandomi che la vita è magnifica laggiù a Rachel, perché il panorama è strepitoso, la civiltà è a solo un'ora di polverosa strada di distanza e gli abitanti non sono mica così pochi: ben sessantaquattro, pardon, sessantadue dopo che due giovani sono fuggiti in qualche tristo college della provincia, pur di evadere da questa roccaforte di Sarah Palin&co.
Visto che siamo in Nevada e dobbiamo raggiungere in pochissimo tempo il New Mexico per impacchettare Kamalita e spedirla in Texas dal fidanzato, a tappe forzate visitiamo la bellissima Sedona, in Arizona, dove riusciamo pure ad avvistare una specie di lupo e io acquisto una tipica borsa made in India a forma di gatto e, il giorno dopo, la Petrified Forest, sempre in Arizona, dove dissuado Kamalita dall'asportare un tocco di legno pietrificato che le sarebbe costato l'amputazione della mano o la fucilazione in loco da parte di rangers-cecchini.
Il rush finale verso l'aeroporto è contraddistinto dall'onnipresente maledizione del fuso orario, che ci fa arrivare ad Albuquerque a soli quaranta minuti dal volo per Dallas. Infatti, nel corso dell'intero viaggio siamo rimaste sospese in una sorta di limbo dove il tempo aveva la stessa consistenza di una Big Bubble masticata, perché se cinque miglia prima erano le cinque del pomeriggio, cinque miglia più in là potevano essere le sei o, forse, le quattro. Ad emblema di questa follia tipicamente americana, basterà raccontare l'aneddoto del receptionist Navajo di Tuba City (posto nel quale mai mi sarei aspettata di alloggiare): interpellato dalla Babi sul mistero dell'ora in vigore, questo nativo cicciottello ci ha indicato la parete alle sue spalle che, per nostra somma sorpresa, presentava ben due orologi. Lì all'hotel erano le sette, ma se avessimo attraversato la strada, sarebbero state le otto, dal momento che la parte di Tuba City che sta dall'altra parte della highway è soggetta ad un differente fuso orario. Inutile dire che mi sembrava di essere nel film Il Seme della follia.
Una volta abbandonata Kamalita al suo destino, io e la Babi abbiamo perlustrato Albuquerque, riscontrando una piazza centrale identica a quella di Santa Fe e Taos, un numero infinito di negozietti con souvenir Navajo made in China, una zona residenziale dove sto pianificando di trascorrere la mia vecchiaia ed un accogliente parcheggio vicino al locale Walmart, presso il quale abbiamo passato una comodissima notte nella Desert Rose, in attesa del vole delle sette.
Il ritorno nella troppo affollata New York è stato, inevitabilmente, traumatico e credo che ci vorrà un mesetto o più prima di riabituarmi ad incrociare più di cinque persone per miglio.