Credo che nemmeno gli Inuit abbiano coniato un vocabolo adatto a descrivere il freddo becco e paralizzante che abbiamo patito durante l'interminabile notte all'aeroporto di La Guardia. Per quanto tentassi di visualizzare immagini di cibi/bevande/posti/oggetti caldi, sentivo le mie ossa scricchiolare per il gelo come rametti rattrappiti da un'inattesa gelata, che nemmeno l'ologramma della minestrina del malatino avrebbe potuto sconfiggere. È un dato di fatto: gli americani hanno una patologica fissazione per l'aria condizionata e, quando credi di esserti finalmente messo in salvo dall'antartide aeroportuale e ti accingi a salutare con la manina bluastra gli orsi bianchi e gli intirizziti shoe shiner (sì: purtroppo esiste ancora qualcuno che si fa lucidare le scarpe!), ti accorgi che la ruota della fortuna non ha alcuna intenzione di girare a tuo favore e che il viaggio in alta quota si trasforma in un'altra tappa di questa ghiacciolosa via crucis, dove solo i ladroni della business class hanno diritto alla copertina di plaid.
Dopo cinque ore di volo da New York ad Albuquerque, con scalo a Dallas, a stento riusciamo a muoverci per gli stenti patiti, ma siamo felici. Guardandoci attorno, viene da chiederci “chi cacchio scenderà mai ad Albuquerque, oltre a noi?”. Semplice: ricettatori di macchine rubate, indiani nativi, cowboys, messicani, tamarri. Grazie al cielo, nessun italiano!
La scelta di questo luogo è stata dettata dalla sua posizione strategica rispetto alle zone che intendiamo visitare, dal prezzo economico (per forza: chi cacchio vuole andare ad Albuquerque?) e dalla forza delle coincidenze e del fato che, mentre eravamo in procinto di prenotare un volo per Tucson o Phoenix, si è palesata con una telefonata di Amber, una sconosciuta parrucchiera di New York in fissa con gli indiani, ad annunciare lo svolgimento di un'ambitissima cerimonia Apache di guarigione proprio ad Albuquerque e proprio nei giorni in cui avremmo dovuto prendere il volo di ritorno. Siccome non si può sputare in faccia al destino, abbiamo quindi gonfiato le nostre vele in direzione del New Mexico. Inutile dire che, sempre a causa del fato, alla fine abbiamo bigiato la famigerata cerimonia, preferendo tenerci tutti i nostri più disparati acciacchi.
Una volta arrivate ad Albuquerque, abbiamo prelevato la macchina in affitto prenotata on line insieme al volo e, nonostante i miei strenui tentativi di scegliere un gippone che il Bas Bloom mi avrebbe invidiato per il resto dei suoi giorni, l'indole lungimirante della Babi ci ha convinte ad optare per una più sobria Toyota Corolla, da me ribattezzata Desert Rose. Inutile dire che, nonostante il pomposo nome, nel giro di mezz'ora la povera Corolla era già ridotta peggio di una discarica di Calcutta, grazie a carta straccia, pacchetti semivuoti di patatine fritte, vestigia di poveri insetti spiaccicati sul paraurti (per la cui uccisione pagherò da qui ai prossimi cinque anni in termini di bad kharma), cibo nepalese putrefatto, sabbia rossa del deserto e, colpo di grazia, galloni e galloni di acqua che forse non si asciugherà mai, rovesciati a ripetizione dall'incauta Kamalita, regina dei tappi male avvitati.
Questo memorabile pellegrinaggio keruacchiano nel far west, lungo 2800 e più polverose miglia, ha avuto come prima tappa la fighettissima Santa Fe, capitale del New Mexico e punto di riferimento per signore attempate e rifatte (ma con classe), anonime folle con velleità artistiche e nativi americani con tanto di patentino d'autenticità impegnati nello strenuo tentativo di vendere graziosi gioielli in rame o abominevoli patacche a turisti più o meno sprovveduti. Siccome noi apparteniamo a questa seconda categoria, Kamalita ha ben pensato di acquistare un originalissimo braccialetto da una pingue pseudo indiana, alla gioiosa cifra di venti dollari. Colgo qui l'occasione per suggerire al saggio antropologo di dedicare un minuzioso studio alla propensione nepalese per lo shopping compulsivo, causa, nel corso del viaggio, dell'acquisto di un altro braccialetto taumaturgico in rame contro i reumatismi (made in India), di una collana in pietre rosse plasticose (paese d'origine supposto: Cina), di una maglietta con la scritta “I love Las Vegas” (anch'essa made in China), di una penna (cinese) della Mesa Verde e di una maglietta (questa made in Nicaragua) del Grand Canyon.
Vicino a Santa Fe sorge il ridente villaggio di Taos che, visitato di prima mattina e nel corso di una disperata ricerca di public restrooms, è a tutte noi sembrato identico a Santa Fe, con la variante della presenza di cowboys con la simpatica abitudine di fischiare ed urlare complimenti alla Babi ed ai suoi shorts.
Se l'incipit del viaggio aveva illuso Kamalita di poter deambulare, come di consueto, su zeppe di circa venti centimetri, il prosieguo dell'avventura l'ha però costretta ad indossare le tanto odiate scarpe da ginnastica che ora mi vuole rifilare e che in più circostanze l'hanno salvata in extremis da indimenticabili quanto potenzialmente uniche cadute da burroni e cime di montagne (“fucking red mountains that are the same everywhere and that we have in Nepal too”). In particolare, al Mesa Verde National Park, per seguire come agili caprette montane il ranger che ci faceva da guida, Kamalita ha finalmente capito che il tacco da passerella di Cannes non era raccomandabile, così come la biker biondiccia di fianco a me ha compreso che lo stivale in pelle marca Harley Davidson forse non è la scelta migliore in Colorado.
Il saggio antropologo, visitando i parchi nazionali, noterà come tratto comune e distintivo dei rangers sia un indistruttibile entusiasmo, un'inquietante propensione ad augurare buongiorno a cani e porci, la paresi facciale da sorriso pietrificato e la verosimile provenienza dall'Actor's Studio di New York, dove (è risaputo) prendono legioni di giovani americani decisamente troppo pieni di salute e con troppi denti bianchi e diritti e insegnano loro il mestiere di ranger.
A proposito di girare senza nessuna consapevolezza di dove ci si trovi, vorrei ricordare l'increscioso episodio del villaggio indiano, nel corso del quale il magico trio italo-nepalese e la Desert Rose si sono ritrovati inspiegabilmente sul cocuzzolo di una montagna piena zeppa di rifiuti di nativi (che un giorno verranno venduti come pregiati fossili), dove il comitato di accoglienza nel paesiello era composto da Toro Armato (di fucile), Toro Parcheggiatore (che ci ha gentilmente invitati a fare una u turn) e Toro Artigiano (dal quale, per salvare la pelle, la Babi ha acquistato per dieci dollari una prestigiosissima penna in legno con attaccata una piuma di qualche povero fagiano selvatico). Il saggio antropologo che volesse studiare queste popolazioni è caldamente invitato a predisporre la propria abitazione ad accogliere ingenti quantità di artigianato più o meno nativo, che potrà comunque riutilizzare come graziosi regali di natale.
Il Grand Canyon, successiva tappa e meta ambita da turisti di tutto il mondo, è senz'altro suggestivo (tranne che per Kamalita la quale, ormai stufa marcia di montagne rosse tutte uguali, ha messo in dubbio la suggestiva bellezza di queste quattro pietre rossicce), ma devo confessare che la visita a questo famosissimo parco lascia un vago ed inconfessabile senso di delusione, perché l'immagine che si è formata nella nostra testa a furia di documentari di Piero Angela e di sfondi per desktop, mischiandosi al mito dell'America lontana e selvaggia, ha circondato questo posto di aspettative troppo elevate.
La South Rim del grand Canyon è rossa, glabra ed aspra e credo che costituisca la prima forma di controllo della crescita della popolazione giapponese e di quella cinese: infatti, a giudicare dalla spaventosa massa umana asiatica che costantemente si può vedere affacciata sul ciglio del canyon, ben oltre le barriere protettive e in spregio di ogni segnale di pericolo, direi che i numerosi turisti cino-nipponici apportano un consistente contributo nello sfamare la fauna selvaggia che popola le sponde del Colorado River.
Mentre la parte meridionale del Grand Canyon pullula di turisti, la North Rim è un rifugio di tranquillità per chi vuole evadere dal caos turistico, e la tipica roccia rossa lascia qua e là il posto a zone e erbose e, addirittura, a boschi di betulle.
Non paghe di quelle che Kamalita si ostina a chiamare fucking red mountains, abbiamo quindi sconfinato nello Utah, alla volta del Bryce Canyon che, sebbene pullulasse di tamarri italiani, sorpassa in fascino e bellezza il più famoso Grand Canyon. Qui, mentre la piccola nepalese si ostinava a scattare foto surrealiste a soggetti totalmente privi di qualsiasi interesse, la Babi elaborava il lutto per la perdita della tanto amata agendina con i pin delle carte di credito, mentre io tentavo di contrastare la mia assoluta mancanza di senso dell'orientamento convincendo Kamalita di sapere benissimo dove stessimo andando.
Per infierire ulteriormente sulla nepalese provetta fotografa, la successiva tappa è consistita nell'ennesimo parco nazionale: il magnifico Zion National Park! Qui, mentre Kamalita portava avanti un'ardua astensione hindu da cibi e bevande nel caldo torrido dello Utah, io e la Babi abbiamo sfidato le rapide di un fiume e l'abbiamo guadato assieme a turisti smandrappati almeno quanto noi. L'unica cosa che ci ha impedito di oltrepassare una strettoia rocciosa prima di quello che si favoleggia essere un paradiso terrestre, è stata la nostra nanità, a causa della quale avrebbero probabilmente intitolato quella gola ventosa alla nostra memoria.
Colte da un inaspettato accesso di pietà, dopo giorni e giorni tra monti e rangers, abbiamo accolto la preghiera che Kamalita, con voce flebile e tremolante, muoveva da tempo dal sedile posteriore della Desert Rose (mai le è stato permesso di mettere a repentaglio con la sua guida asiatica le vite nostre e quelle di cowboy ed Harleysti della Route 66) e ci siamo così dirette alla volta di Las Vegas, la città del peccato, come la chiamano da queste parti. Dopo ore ed ore nel deserto del Nevada, dove si incontrano solo polvere, vento e silenzio, ecco apparire inaspettata Las Vegas, immensa macchia di luci all'orizzonte. Qui, infatti, ogni cosa è luminosa, anzi abbagliante: le insegne dei Motel (tutti con casino annesso), le slot machines onnipresenti, le riproduzioni in plastica e cartongesso di Venezia, i sorrisi vuoti delle prostitute, gli anelli d'oro dei papponi, le paillettes dei vestiti di turiste seminude. Di primo acchito, Las Vegas lascia a bocca aperta ed ipnotizza il viandante (a meno che il suddetto viandante non sia alla guida di una Corolla in mezzo a giganteschi Suv lanciati a settantacinque miglia orarie sulle strade a sei corsie del centro città) ma, al terzo losco figuro che cerca di rifilarti depliant di peep shows e gentlemen's club, Las Vegas inizia a farti un po' schifo. Poi, però, succede qualcosa di veramente pericoloso: ci si inizia ad assuefare a Sin City tanto che, una volta ritornati sulle strade desertiche del Nevada, il silenzio si fa assordante e la solitudine di essere l'unica macchina nel giro di miglia diventa difficile da sopportare.
Il rush finale verso l'aeroporto è contraddistinto dall'onnipresente maledizione del fuso orario, che ci fa arrivare ad Albuquerque a soli quaranta minuti dal volo per Dallas. Infatti, nel corso dell'intero viaggio siamo rimaste sospese in una sorta di limbo dove il tempo aveva la stessa consistenza di una Big Bubble masticata, perché se cinque miglia prima erano le cinque del pomeriggio, cinque miglia più in là potevano essere le sei o, forse, le quattro. Ad emblema di questa follia tipicamente americana, basterà raccontare l'aneddoto del receptionist Navajo di Tuba City (posto nel quale mai mi sarei aspettata di alloggiare): interpellato dalla Babi sul mistero dell'ora in vigore, questo nativo cicciottello ci ha indicato la parete alle sue spalle che, per nostra somma sorpresa, presentava ben due orologi. Lì all'hotel erano le sette, ma se avessimo attraversato la strada, sarebbero state le otto, dal momento che la parte di Tuba City che sta dall'altra parte della highway è soggetta ad un differente fuso orario. Inutile dire che mi sembrava di essere nel film Il Seme della follia.
Una volta abbandonata Kamalita al suo destino, io e la Babi abbiamo perlustrato Albuquerque, riscontrando una piazza centrale identica a quella di Santa Fe e Taos, un numero infinito di negozietti con souvenir Navajo made in China, una zona residenziale dove sto pianificando di trascorrere la mia vecchiaia ed un accogliente parcheggio vicino al locale Walmart, presso il quale abbiamo passato una comodissima notte nella Desert Rose, in attesa del vole delle sette.
Il ritorno nella troppo affollata New York è stato, inevitabilmente, traumatico e credo che ci vorrà un mesetto o più prima di riabituarmi ad incrociare più di cinque persone per miglio.
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