mercoledì 4 aprile 2012

Blossoms de cerveza

La leggendaria pigrizia del ghetto di Kingston ha ricoperto ogni cosa con la sua patina oleosa e tenace, sicché l'esagerata lentezza con la quale aggiorno il mio blog trova le sue radici non tanto in una mia personale mancanza di zelo, quanto in una causa ambientale, un po' come i tetti d'amianto o il mercurio nelle falde acquifere. Siccome in questo preciso momento il mio fratello messicano acquisito sul suolo ammmericano mi ha scacciata fuori dal suo antro perché non vuole che lo derida nel corso di uno skype-appuntamento con una ragazza albanese, mi trovo rinchiusa nella stanza della futura coinquilina e posso dedicare la prigionia all'aggiornamento delle mie vicende.
A marzo ho decisamente vissuto al di sopra delle mie possibilità finanziarie e probabilmente la prossima volta che mi recherò alla Bank of America in Washington Avenue (quella che, illo tempore, mi spedì cinque debit cards di fila), il benvenuto che mi attenderà sarà caloroso e sincero.
I principali esborsi sono da ricondursi all'assidua frequentazione del ristorante indiano di Kingston, dove l'Eahmad mi dispensa ogni volta “il solito” paratha vegan; alla compulsiva ingestione di cibo messicano presso El Charrito di Poughkeepsie, dove la mamacita giunonica che parla solo spagnolo alla velocità della luce mi infarcisce con la sua “solita” comida (nachos, avocado, insalata, frijoles) e, soprattutto, ai viaggi a Boston e Washington DC, qui chiamata semplicemente DC.
Il week end in Massachusetts è stato risucchiato da un enorme buco nero con centro nel finto Irish pub vicino allo stadio dei Red Sox, dove abbiamo dilapidato i nostri beni e le nostre cellule cerebrali in birre acquose. Quello che ricordo è che siamo partiti un sabato mattina, ovviamente in super ritardo, a bordo della mia Sweet Princess e che, dopo quattro ore di guida, ho fatto il madornale errore di cedere le chiavi della macchina alla Tìca, ovvero Melissa la costarichense. Il debutto al volante l'ha vista passare col rosso al primo semaforo incontrato (era nervosa per via del cambio manuale), per poi annoverare un'imprevedibile e repentina frenata nel mezzo di due corsie ad alta velocità (era indecisa su quale prendere), un senso unico preso in contromano (era distratta dal nostro amico marocchino Hamza, leggerissimamente avvinazzato) e infine un parcheggio sulla pipì di una decina di ubriachi (era stanca di avere a che fare con noi e voleva scendere in fretta). Ora, io non sono mai stata in Costa Rica, ma mi vien da pensare che forse non convenga essere pedoni da quelle parti e che l'aspettativa di vita sia strettamente legata alla solidità del mezzo che si guida.
Siccome la quasi totalità dei pub e dei club di Boston chiude inspiegabilmente alle due di notte, se visitate la città con bevitori incalliti assicuratevi che i vostri amici abbiano fatto scorta in precedenza di birre ed alcolici vari, perché altrimenti vi toccherà rincorrerli a destra e a manca, nel vano tentativo di impedir loro di molestare poveri passanti o altri ubriaconi loro pari. Il ricordo più vivido della nottata consiste, infatti, in Hamza che, incapace di intendere e di volere, continua ad urlare a squarciagola “follow the gay guys!”, esortandoci a seguire una coppia di ragazzi che si stavano recando nell'unico locale aperto a quell'ora: un gay club.
Per girare Boston, la città più europea degli States, dopo una notte brava, vi servirà senz'ombra di dubbio un energy drink e un caffè doppio, ma tutti gli sforzi per tenere le palpebre sollevate verranno ricompensati dalla bellezza della camminata lungo la freedom trail e per le vie del centro. La visita al museo di scienze naturali è consigliata solo a chi ha la rara capacità di non addormentarsi sui sedili del planetarium, mentre una tizia sovrappeso spiega le meraviglie dell'universo ad un'orda molesta di bambini gringos.
Il fine settimana a DC, invece, è stato consumato all'insegna della morbosa passione coreana per il locale Cherry Blossom Festival, un happening che ruota tutto attorno alle migliaia di alberi che, a partire dai primi del '900, il Giappone ha graziosamente donato alla capitale nordamericana in segno d'amicizia e che fioriscono per poco più di una settimana verso la fine di marzo. Il team, tutto al femminile, era costituito da me, dalla coreana Yunkyeong e dalle due bolivianite Andrea (detta anche La Maledetta) ed Elizabeth (meglio nota come Gatubela).
Il viaggio di andata ha previsto una sosta strategica alla Hershey factory, produttrice di ogni tipo di snack cioccolatosi, nessuno dei quali, sfortunatamente, vegan e nessuno fair trade...sicchè la mia anima anarcoanimalista ha dovuto lottare per non arringare le masse ebbre di cioccolato iniquo con un sermone in fantainglese sullo sfruttamento dei paesi produttori del cacao e sull'industria del latte.
Una volta arrivate a DC, superate le classiche peripezie del turista last minute allergico alle prenotazioni, abbiamo lasciato le nostre masserizie in un hotel fighetto scovato in internet dalla Yunkyeong e abbiamo passato le successive tre ore inghiottite dallo Smithsonian Museum of Modern Art, uno dei più strabilianti musei che abbia mai visitato.
La serata è consistita in uno scomposto ingozzarsi di cibo cinese a Chinatown, dopo che la mania coreana di vedere e fotografare TUTTO ci aveva costrette ad un durissimo digiuno durante l'arco dell'intera giornata. Per conciliare il sonno, abbiamo poi optato per un sobrio brindisi in camera a base di liquore coreano alla ciliegia, prima di addormentarci col sottofondo di Que viva!, la versione latina di American idol. Il giorno seguente, la disciplina asiatica ci ha inflitto una levataccia alle ore sei del mattino, per poter sfruttare pienamente la giornata piovosa e fredda Alaska style. Mentre Obama se la spassava, ironia della sorte, in Corea, l'apice della nostra domenica si è raggiunto lungo le quasi due miglia di percorso tra gli alberelli fioriti di rosa (il famoso cherry blossom), dove ogni tre passi Yunkyeong, con sguardo tra il trasognato e l'eroinomane in craving, sospirave “oh my Gooooood”, scattando milioni di fotografie che renderanno sicuramente agevole per gli archeologi del futuro ricostruire non solo il nostro stile di vita, ma persino quanti peli nel naso avevamo in quella particolare circostanza.
Dopo una doverosa capatina al National Air and Space Museum, abbiamo deciso di fare tappa al Pentagono sulla via del ritorno e, grazie al rinomato talento asiatico per la guida, ci siamo infilate nella corsia sbagliata, facendo accorrere in soccorso del popolo americano un paio di amichevoli guardie armate fino ai denti.
Una volta tornate a Poughkeepsie, dopo sei ore di macchina e diversi energy drinks ingeriti, ho appreso la lezione più importante del fine settimana: durante il week end, mai lasciare le chiavi della propria macchina ad un messicano...dopo l'assunzione di litri, ops, galloni e galloni di alcool, potrebbe non ricordarsi di averle prese e nemmeno che la vostra macchina sia parcheggiata proprio di fronte a casa sua...

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