venerdì 13 maggio 2011

Sorridere, sempre!

Dopo tre mesi in terra straniera, devo trovare il modo di spiegare a genitori ed amici come mai il mio inglese non sia, non dico al livello di quello degli speaker della CNN, ma perlomeno a quello di qualche calciatore nostrano improvvisamente catapultato a giocare per una squadra anglosassone.
Innanzitutto, posso rassicurare tutti circa il fatto che la mia conoscenza della lingua mi permette, se non di comunicare ogni più piccola sfumatura dei miei pensieri e sentimenti (ma forse è meglio così...), almeno di sopravvivere: so come chiedere di non mettere il burro nel mio alu paratha all'Indian Restaurant; sono in grado di dire agli utenti che davvero desidero che si lavino le mani dopo aver usato il bagno; riesco a far capire su quale pompa far mettere i venti dollari per la benzina (anche se ieri mi sono fatta due miglia col tappo del serbatoio aperto, perché mi ero dimenticata di chiuderlo); riesco a discutere con i miei roommates circa le misure igienico-sanitarie per dissuadere i topini dal cibarsi del nostro cibo, se non addirittura dei nostri corpi.
Il motivo del mancato fiorire in me di strabilianti doti linguistiche, risiede principalmente nel tipo di ambienti che generalmente frequento e che mi mettono al contatto con diverse parlate, solo una delle quali si avvicina agli standard CNN.
Il saggio antropologo, potrebbe così suddividere le lingue da me approcciate:
FANTA-INGLESE DOMESTICO: con i roommates abbiamo creato una sorta di koinè nepal-europea, che contempla termini olandesi come “douche” o nepalesi come “poori” o “roti”, più una serie incredibilmente ampia di parolacce italiane. Spesso, con Kamalita usiamo un linguaggio fatto di verbi non coniugati, neologismi e storpiature del linguaggio dei segni.
La caratteristica precipua di questo tipo di linguaggio è la perifrasi: data la ristrettezza del vocabolario, alcuni oggetti vengono descritti con lunghi, barocchi ed imbarazzanti giri di parole. In particolare, ricordo che per indicare lo stendibiancheria eravamo soliti chiamarlo “la cosa di plastica per appendere i vestiti bagnati e farli asciugare”. E tuttora ignoro come si dica...
BLACK SLANG: sul lavoro e nel vicinato, noi siamo gli unici visi pallidi, nonché gli unici ad usare la forma “doesn't” per la terza persona singolare. Colleghi e vicini parlano una specie di slang velocissimo e pieno zeppo di espressioni idiomatiche che difficilmente riusciamo a cogliere, tanto che sto rimpiangendo amaramente di non aver comprato quell'utilissimo vocabolario slang-italiano che avevo visto a Milano ed avevo erroneamente giudicato un inutile peso nella mia valigia.
La tecnica che personalmente utilizzo per sopravvivere si basa su questa regola aurea: se non capisci quello che ti dicono e non è una domanda, sorridi (tanto, anche se ripetono non capisci una cippa) e sfodera uno degli “ah, wow” che per ore hai provato da solo davanti allo specchio; se non capisci ed è una domanda, chiedi di ripeterla e, se non capisci ancora (cosa molto probabile), sorridi e scegli a caso tra no e yes. Se la risposta richiesta dovrebbe essere più articolata e noti un misto di perplessità e pena nel tuo interlocutore, allora sorridi e scusati dicendo che, siccome sei italiano, l'inglese lo sai scrivere molto meglio di quanto tu non lo sappia parlare.
GERGO DEGLI UTENTI: è di sicuro quello in cui eccello, anche perché un buon 50% delle persone con cui lavoro non parla e si rende necessario il body language, campo nel quale, si sa, noi italiani siamo imbattibili. Con gli utenti che, invece, hanno abilità verbali, cerco di far apparire la mia incapacità di capirli pienamente come qualcosa di altamente esotico (“sapete, vengo da un bellissimo paese lontano, lontano, lontano...”), mentre le continue richieste di ripetere quello che dicono vengono da loro molto apprezzate e lette come un segno di interesse nei loro confronti. Intanto, sto iniziando ad introdurre nel gergo parole come “bella/o” e “mamma”, mentre devo dire che sto traendo grandi soddisfazioni anche dall'arricchimento del mio vocabolario con termini come pannolone, cacca (conosco almeno quattro termini per indicarla), sedia a rotelle, pennello, più svariati nomi di merendine ultra chimiche.
INGLESE VEGANO: quando vado al Woodstock Farm Animal Sanctuary ho finalmente modo di apprendere termini per esprimermi in modo critico sulla condizione politico-ecologica degli Stati Uniti e, più in generale, dell'intero globo terracqueo, tentando di imitare gli standard CNN che vengono qui praticati. Devo confessare che il mio inglese maccheronico è messo in secondo piano dalla mia veganità che, come fosse un marchio inscritto nel mio dna, mi rende a pieno titolo un amabile membro del popolo vegan disperso in giro per l'universo.
Oltre a tentare di approcciare tematiche nobili come la fame nel mondo e le migliori ricette per i muffins cruelty free, arricchisco ogni volta il mio vocabolario con termini che mi potranno tornare utili quando capirò che la mia vera vocazione è quella di allevare candide gallinelle salvate dal macello e coltivare patate biologiche in una qualche dispersa provincia americana flagellata dagli uragani, sperando di avere le famose scarpette rosse per poter tornare nel mio paese in caso di emergenza.

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