domenica 3 aprile 2011

Che Apollo non ci perda i calzini!

Non abbiamo la lavatrice. Questo è uno spiacevole dato di fatto col quale dobbiamo fare i conti da un paio di mesi a questa a parte. Noi e i nostri calzini fetidi, i vestiti imbrattati dagli utenti, i pigiami sporchi del caffè mattutino e del tè serale, le coperte intrise di pulci (che, ovviamente, stanno ancora infestando la casa) e gli asciugamani della cucina sempre sporchi di cibo al curry.
La spiegazione ufficiale per la mancanza della washing machine è che la nostra dimora è troppo vecchia e fatiscente per reggere la violenta portata del flusso saponoso. In realtà, dalle case dei vicini sentiamo provenire, ad ogni ora del giorno e della notte, il familiare rumore della lavatrice e quindi forse in futuro potremo anche noi introdurre abusivamente una lavatrice clandestina, sperando di non far marcire le già traballanti fondamenta in compensato made in USA.
Settimanalmente, le risorse vestiarie iniziano a scarseggiare e all'orizzonte si profila minaccioso e concreto il rischio di un'emergenza igienico-sanitario peggiore dell'epidemia di colera in Zimbabwe.
C'è chi rivolta le mutande per poterle riusare due volte, chi insegue calzini ormai in grado di muoversi da soli facendo addirittura finta che questo moto sia cosa normale, chi inizia a parlare con i propri pantaloni, chi gioca a UNO! con la felpa che indossa da giorni o chi intravede la sacra sindone nelle “pezzature” delle magliette. Cose raccapriccianti insomma.
L'unico ad essere immune dal morbo del panno sporco è Bas: lui, infatti, previene ogni forma di lordura e, appena vede una timida macchietta o uno sparuto granello di polvere, subito annichilisce lo zozzo con ogni sorta di prodotto che l'industria chimica statunitense fornisce.
Talvolta ho il timore di ritrovarmelo in camera con una tuta tipo scafandro da bonifica ambientale, intento a vaporizzare me e le mie masserizie con qualche tossina igienizzante.
Quando lo sporco è decisamente troppo, si verifica una periodica migrazione verso la laundromat, ovvero la lavanderia a gettoni.
Inizialmente, la lavanderia di fiducia era quella dietro casa (che io raggiungevo solo con l'ausilio del mio fido gps), piccola ma accogliente, nonostante la proprietaria fosse di una logorrea devastante. Tuttavia, dopo averla trovata inaspettatamente chiusa in orari imprevedibili, abbiamo deciso di passare alla concorrenza e diventare affezionati clienti della prestigiosa Big Bubble Laundry, che si trova sulla Broadway ed è grande quanto un campo da calcio.
Io amo quel posto perché, appena varchi le porte automatiche, vieni catapultato direttamente in Messico o in Honduras e anche la televisione (che non può mancare in ogni lavanderia che si rispetti) è fissa sulle soap opera in spagnolo. Il saggio antropologo eleggerà la laundromat come osservatorio privilegiato sulla provincia americana, ma dovrà prestare attenzione alla variabile giorno: mentre per tutta la settimana la Big Bubble è un posto di incontro per gli immigrati sudamericani, il mercoledì la dryer machine gratis funge da irresistibile richiamo per una pittoresca fauna rigorosamente bianca composta principalmente da madri single con almeno tre figli sovrappeso, da tossicomani capelloni con macchine tenute assieme grazie allo scotch per pacchi, da reduci del vietnam ed ex detenuti. La cifra distintiva del popolo del mercoledì è comunque la mole incommensurabile di bucato che, generalmente, viene riposto con cura in immensi sacchi tipo quelli delle patate. Per ovvi motivi economico-culturali, io ho personalmente deciso di unirmi alla massa umana della free dryer, dalla quale amo distinguermi per la mia poco vistosa cesta-porta-abiti-svunci in plastica fucsia.
Nella lunga attesa per il bucato, mi dedico alla lettura di romanzi in inglese che faccio finta di comprendere appieno, mi appassiono a qualche telenovela (sempre e comunque in spagnolo), uso l'unlimited texting della T-Mobile per mandare inutili messaggi ai fucking roommates, vigilo sui miei miseri averi affinché nessun eroinomane in craving tenti di borseggiarmi.
L'attitudine con la quale ci si reca alla laundry rivela qualcosa circa le inclinazioni della persona: mentre io sono felice come una pasqua di poter scoprire se la suocera cattiva della sopa opera sia riuscita a far fuori la nuora e poi a farla franca, Nata preferirebbe passare il tempo dedicato alla laundry al Dunkin Donuts o al Mahoney Irish Pub e Kamalita al Kingston Indian Restaurant. Il Bas, invece, ha ormai sviluppato una preoccupante forma di dipendenza da lavanderia a gettoni, che lo spinge a ripetere compulsivamente il rito del lavacro innumerevoli volte alla settimana. Quando lo vedi uscire di casa e gli domandi dove stia andando, almeno una volta su tre lo sentirai rispondere “to the laundry” e, nel caso, lo vedrai ritornare, gioioso e pacifico, circa tre ore più tardi, con un'incredibile mole di panni puliti e piegati in modo militaresco, alleggerito dello sporco inesistente e di circa dieci dollari. Il motivo di un tale apparentemente inspiegabile dispendio di tempo, soldi ed energie risiede nella modalità con la quale il rituale prende forma: i panni vanno divisi in vestiti normali, vestiti delicati, lenzuola ed asciugamani; quindi, vanno collocati in tre differenti washing machines che lavorano contemporaneamente con tre diversi programmi e temperature; infine, con antichi gesti ieratici, i sacri tessuti vanno inseriti in tre distinte asciugatrici, per poi essere piegati intonando il tradizionale peana di Apollo che, tra le altre cose, protegge sicuramente anche gli avventori delle laundromat.
Che Apollo vegli sempre sui nostri capi più pregiati e prevenga ogni forma di infeltrimento o di scolorimento! Possano i nostri calzini non venire risucchiati dalla washing machine! Possa Milagros della telenovela peruviana ritrovare l'amore dopo quattro matrimoni falliti!

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